La lotta di Giacobbe

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    Riporto uno studio interessante che ho trovato in rete:



    Facoltà teologica dell'Emilia Romagna


    Bologna



    ELABORATO SCRITTO DEL BIENNIO FILOSOFICO-TEOLOGICO ANNO ACCADEMICO 2008-2009














    LA LOTTA DI GIACOBBE

    Spunti esegetici dall’antica tradizione giudaica e cristiana su Gen 32,23-33















    STUDENTE DOCENTE

    Michael Giovannini Prof. Giuseppe Scimè









    1


    Indice

    Indice ................................................................................................................................ 2
    1 Introduzione ................................................................................................................... 4
    2 Il testo di Genesi 32, 23-33: La lotta di Giacobbe.............................................................. 6
    2.1 Testo ebraico masoretico ................................................................................................................................... 6
    2.1.1 Traduzione letterale del testo ebraico ............................................................................................................ 6
    2.2 Testo dell’antica versione greca (LXX) ................................................................................................................ 7
    2.2.1 Traduzione letterale del testo OG ................................................................................................................... 7
    2.3 Testo latino della Vulgata .................................................................................................................................. 8
    2.3.1 Traduzione letterale del testo della Vulgata ................................................................................................... 8
    2.4 Traduzione CEI ..................................................................................................................................................... 9
    3 La rilettura nella bibbia ebraica: Il Profeta Osea ............................................................ 10
    3.1 Testo di Osea 12, 4-5 ........................................................................................................................................ 11
    3.1.1 Traduzione CEI ............................................................................................................................................... 11
    4 La rilettura nella LXX: Il libro della Sapienza .................................................................. 12
    4.1 Testo di Sapienza 10, 10-12 .............................................................................................................................. 13
    4.1.1 Traduzione CEI ............................................................................................................................................... 13
    5 La ripresa nei Targumim ................................................................................................ 14
    6 Il commento giudaico di Filone di Alessandria ............................................................... 16
    6.1 La figura di Giacobbe ....................................................................................................................................... 17
    6.2 Ricerca della Sapienza e parola di Dio .............................................................................................................. 18
    6.3 Giacobbe e l’esperienza ascetica ...................................................................................................................... 18
    6.4 I maestri della sapienza .................................................................................................................................... 20
    6.5 L’esito della lotta spirituale .............................................................................................................................. 21
    6.6 La visione di Dio ................................................................................................................................................ 23
    6.7 La richiesta del nome e la benedizione ............................................................................................................. 24
    6.8 Il valore dei nomi .............................................................................................................................................. 25
    6.9 L’anca irrigidita ................................................................................................................................................ 26
    7 Il commento cristiano di Giustino ................................................................................. 31
    7.1 Interpretazione cristologica ............................................................................................................................. 32

    2

    7.2 Il nome «Israele» .............................................................................................................................................. 33
    7.3 Giacobbe: preannuncio della Croce .................................................................................................................. 33
    8 Il commento cristiano di Clemente di Alessandria ......................................................... 35
    8.1 Stromata: una riflessione sui nomi ................................................................................................................... 35
    8.2 Il Pedagogo divino ............................................................................................................................................ 36
    9 Conclusione .................................................................................................................. 39
    Bibliografia ....................................................................................................................... 41


    1 Introduzione

    Questo lavoro nasce in primo luogo da una sana perplessità che provo ogni volta nel leggere nel libro della Genesi l'episodio in cui Giacobbe lotta con un uomo misterioso.

    Tutta la vicenda di questo patriarca del popolo di Israele appare quantomeno turbolenta: fin dalla nascita è in lotta per conquistarsi la propria identità; dapprima con il fratello Esaù per la primogenitura e la benedizione paterna, poi con Labano per poter avere le sostanze necessarie per una vita indipendente nella terra dei padri. Egli nella lotta per la vita mostra due doti particolari: la tenacia e l'astuzia. Giacobbe è un uomo alla ricerca del proprio posto nel mondo secondo il disegno di Dio. Ma non è un attendista, non si aspetta che qualcuno prepari per lui un destino; egli si pone con coraggio di fronte alla realtà che lo circonda, lavorando con costanza per costruirsi un futuro, un'esistenza feconda, insomma per trovare la sua identità di padre del popolo di Dio.

    Mentre sta ritornando verso la terra dei suoi padri con tutte le sostanze che si era guadagnato lavorando per Labano, Giacobbe incontra sul guado dello Iabbok un uomo che si mette a lottare con lui per tutta la notte. Verso l'alba i due finalmente si lasciano; Giacobbe sembra vincitore, ma ritorna dai suoi vistosamente claudicante; l'altro uomo, che non riesce a divincolarsi dalla sua presa, non vuole rivelare la sua identità, anzi ne dà una nuova a Giacobbe, lo chiama Israele e poi lo benedice. L'avversario non appare più un semplice uomo, infatti il patriarca ricorderà quel luogo come Penuel, perché vi ha potuto vedere Dio.

    La comprensione di questo episodio risulta piuttosto difficile. In questo elaborato ho cercato di indagare come l'episodio è stato recepito nell'alveo della tradizione biblica genericamente intesa. A partire dall'humus culturale nel quale il testo è stato prodotto e nel quale è stato recepito, secondo le testimonianze rintracciabili nei libri del canone della Bibbia ebraica, si è cercato di compiere un percorso diacronico allo scopo di cogliere le linee di continuità e di discontinuità nella ricezione del brano nelle comunità ebraiche e poi cristiane che si sono accostate al testo. Come testimoni del degli ultimi secoli dell'epoca precristiana, si sono presi i Targumim aramaici e i libri Deuterocanonici scritti in lingua greca. Filone è rappresentante di un pensiero filosofico ellenistico che si mette in dialogo fruttuoso con la tradizione biblica; nelle sue opere si pongono dei punti imprescindibili per ogni successiva interpretazione del brano, e più in generale, delle Scritture. Per questo si è cercato di indagare con una certa cura la produzione filoniana, per cogliere quegli snodi fondamentali che verranno in seguito accolti anche nell'esegesi patristica cristiana. Infine, limitando l'ambito di questo studio ai primi secoli dell'epoca patristica, si sono individuati in Giustino e Clemente di Alessandria due testimoni della ricezione del brano in esame nella tradizione cristiana.

    Il percorso proposto ha l'intento di cogliere qualche snodo fondamentale nell'interpretazione dell'episodio enigmatico della lotta di Giacobbe, cercando di far emergere come il novum cristiano




    4


    sia da un lato saldamente innestato nel pensiero biblico e dall'altro in un fecondo dialogo con il pensiero filosofico ellenistico.





























    5


    2 Il testo di Genesi 32, 23-33: La lotta di Giacobbe

    2.1 Testo ebraico masoretico

    wyt'êxop.vi yTeäv.-ta,w> ‘wyv'n" yTeÛv.-ta, xQ;úYIw: aWhª hl'y>L:åB; Ÿ~q'Y"åw: WTT 23

    ~rEÞbi[]Y:)w: ~xeêQ'YIw: 24 `qBo)y: rb:ï[]m; taeÞ rboê[]Y:w:) wyd"l'y> rf"ß[' dx;îa;-ta,w>


    AMê[i ‘vyai qbeîa'YEw: AD=b;l. bqoß[]y: rtEïW"YIw: 25 `Al-rv,a]-ta, rbEß[]Y:w:) lx;N"+h;-ta,

    ‘[q;Te’w: Ak=rEy>-@k;B. [G:ßYIw: Alê ‘lkoy" al{Ü yKiä ar>Y:©w:26 `rx;V'(h; tAlï[] d[;Þ

    rx;V'h; hl'Þ[' yKiî ynIxeêL.v; rm,aYOæw: 27 `AM*[i Aqßb.a'he(B. bqoê[]y: %r,y<å-@K;


    rm,aYOàw: ^m<+V.-hm; wyl'Þae rm,aYOðw: 28 `ynIT")k.r:Be-~ai yKiÞ ^êx]Lev;(a] al{å ‘rm,aYO’w:

    t'yrIôf'-yKi( laer"f.yI-~ai yKiÞ ^êm.vi ‘dA[ rmEïa'yE ‘bqo[]y: al{Ü rm,aYO©w: 29 `bqo)[]y:


    aN"å-hd"yGI)h; ‘rm,aYO’w: bqoª[]y: la;äv30.YIw: `lk'(WTw: ~yviÞn"a]-~[iw> ~yhi²l{a/-~[i

    bqo±[]y: ar"óq.YIw:31 `~v'( Atßao %r<b'îy>w: ymiv.li la;äv.Ti hZ<ß hM'l'î rm,aYO¨w: ^m,êv.


    32 `yvi(p.n: lceÞN"Tiw: ~ynIëP'-la, ~ynIåP' ‘~yhil{a/ ytiyaiÛr"-yKi( laeynIP. ~AqßM'h; ~veî

    33 `Ak*rEy>-l[; [;leÞco aWhïw> laeWnP.-ta, rb:ß[' rv<ïa]K; vm,V,êh; Alå-xr:(z>YI)w: %rEêY"h; @K:å-l[; ‘rv,a] hv,ªN"h; dyGIå-ta, laeør"f.yI-ynE)b. Wl’kal{).ayO- !Ke‡-l[;
    `hv,(N"h; dygIßB. bqoê[]y: %r,y<å-@k;B. ‘[g:n" yKiÛ hZ<+h; ~AYæh; d[;Þ



    2.1.1 Traduzione letterale del testo ebraico

    23 Egli si alzò durante la notte e prese le sue due mogli e le sue due serve e i suoi undici figli e guadò il guado dello Iabbok.
    24 E li prese e li fece attraversare il torrente e fece attraversare (le sue proprietà).

    25 E rimase Giacobbe solo e un uomo lottò con lui fino al sorgere dell’alba.

    26 E vide che non prevaleva verso lui e colpì l’articolazione della sua coscia e fu slogata l’articolazione della coscia di Giacobbe nel suo lottare con lui.
    27 E disse: «Lasciami libero perché sorge l’alba». E disse: «Non ti lascio libero se non mi benedici».

    28 E disse a lui: «Quale il tuo nome?». E disse: «Giacobbe».

    29 E disse: «Non Giacobbe sei chiamato ancora ma Israele, perché perseverasti con Dio e con gli uomini e prevalesti».

    30 E chiese Giacobbe e disse: «Dimmi il tuo nome!». E disse: «Perché mi chiedi il mio nome?». E lì lo benedisse.

    31 E Giacobbe proclamò: «Il nome del luogo è Penuel, poiché vidi il Signore faccia a faccia e la mia vita fu salva».
    32 E sorse su lui il sole quando attraversò il Penuel, egli zoppicante sulla sua coscia.

    33 Per questo i figli di Israele non mangiano il tendine della gamba, che è sull’articolazione della coscia fino a questo giorno, poiché colpì sull’articolazione della coscia di Giacobbe sul tendine della gamba.






    6


    LXT 23

    2.2 Testo dell’antica versione greca (LXX)

    avnasta.j de. th.n nu,kta evkei,nhn e;laben ta.j du,o gunai/kaj kai. ta.j du,o paidi,skaj

    kai. ta. e[ndeka paidi,a auvtou/ kai. die,bh th.n dia,basin tou/ Iabok 24 kai. e;laben auvtou.j kai. die,bh to.n ceima,rroun kai. diebi,basen pa,nta ta. auvtou/ 25 u`pelei,fqh de. Iakwb mo,noj kai. evpa,laien a;nqrwpoj metV auvtou/ e[wj prwi, 26 ei=den de. o[ti ouv du,natai pro.j auvto,n kai. h[yato tou/ pla,touj tou/ mhrou/ auvtou/ kai. evna,rkhsen to. pla,toj tou/ mhrou/
    Iakwb evn tw/| palai,ein auvto.n metV auvtou/ 27 kai. ei=pen auvtw/| avpo,steilo,n me avne,bh ga.r
    o` o;rqroj o` de. ei=pen ouv mh, se avpostei,lw eva.n mh, me euvlogh,sh|j 28 ei=pen de. auvtw/| ti, to.
    o;noma, sou, evstin o` de. ei=pen Iakwb 29 ei=pen de. auvtw/| ouv klhqh,setai e;ti to. o;noma, sou
    Iakwb avlla. Israhl e;stai to. o;noma, sou o[ti evni,scusaj meta. qeou/ kai. meta.
    avnqrw,pwn dunato,j 30 hvrw,thsen de. Iakwb kai. ei=pen avna,ggeilo,n moi to. o;noma, sou kai. ei=pen i[na ti, tou/to evrwta/|j to. o;noma, mou kai. huvlo,ghsen auvto.n evkei/ 31 kai. evka,lesen Iakwb to. o;noma tou/ to,pou evkei,nou Ei=doj qeou/ ei=don ga.r qeo.n pro,swpon pro.j pro,swpon kai. evsw,qh mou h` yuch, 32 avne,teilen de. auvtw/| o` h[lioj h`ni,ka parh/lqen to. Ei=doj tou/ qeou/ auvto.j de. evpe,skazen tw/| mhrw/| auvtou/ 33 e[neken tou,tou ouv mh. fa,gwsin oi` ui`oi. Israhl to. neu/ron o] evna,rkhsen o[ evstin evpi. tou/ pla,touj tou/ mhrou/ e[wj th/j h`me,raj tau,thj o[ti h[yato tou/ pla,touj tou/ mhrou/ Iakwb tou/ neu,rou kai. evna,rkhsen


    2.2.1 Traduzione letterale del testo OG

    23 Alzatosi in quella notte, prese le due mogli e le due serve e i suoi undici figli e passò il passaggio dello Iabok
    24 e li prese e attraversò il torrente e trasportò al di là tutte le sue cose.

    25 Giacobbe rimase solo e un uomo lottava con lui fino al primo mattino,

    26 Ma vide che non è capace contro di lui e toccò l’articolazione della sua gamba e l’articolazione della gamba di Giacobbe divenne rigida (intorpidì) nel suo lottare con lui.

    27 e disse a lui: «Mandami via», giunse infatti il primo mattino, ma quello disse: «Non ti mando via se non mi benedici»
    28 ma disse allora a lui: «Qual è il tuo nome?» e quello rispose: «Giacobbe»

    29 Rispose a lui: «Non sarà chiamato più il tuo nome Giacobbe, ma Israele sarà il tuo nome, perché sei diventato forte con Dio e con gli uomini»

    30 Allora chiese Giacobbe dicendo: «Annunciami il tuo nome» e disse: «Perché chiedi il mio nome?» e benedisse lui in quel luogo.

    31 Poi Giacobbe chiamò il nome di quel luogo «“Visione di Dio”; poiché vidi Dio faccia a faccia e la mia vita fu salvata»
    32 Sorse il sole su lui quando attraversò il [luogo] “Visione di Dio” e egli zoppicava sulla sua gamba.

    33 Per questo i figli di Israele non mangiano il tendine che irrigidì, il quale è sull’articolazione della gamba fino a questo giorno perché toccò il tendine dell’articolazione della gamba di Giacobbe e irrigidì.








    7


    VUL 22

    2.3 Testo latino della Vulgata

    cumque mature surrexisset tulit duas uxores suas et totidem famulas cum undecim filiis et

    transivit vadum Iaboc 23 transductisque omnibus quae ad se pertinebant 24 remansit solus et ecce vir luctabatur cum eo usque mane 25 qui cum videret quod eum superare non posset tetigit nervum femoris eius et statim emarcuit 26 dixitque ad eum dimitte me iam enim ascendit aurora respondit non dimittam te nisi benedixeris mihi 27 ait ergo quod nomen est tibi respondit Iacob 28 at ille nequaquam inquit Iacob appellabitur nomen tuum sed Israhel quoniam si contra Deum fortis fuisti quanto magis contra homines praevalebis 29 interrogavit eum Iacob dic mihi quo appellaris nomine respondit cur quaeris nomen meum et benedixit ei in eodem loco 30 vocavitque Iacob nomen loci illius Phanuhel dicens vidi Deum facie ad faciem et salva facta est anima mea 31 ortusque est ei statim sol postquam transgressus est Phanuhel ipse vero claudicabat pede 32 quam ob causam non comedunt filii Israhel nervum qui emarcuit in femore Iacob usque in praesentem diem eo quod tetigerit nervum femoris eius et obstipuerit



    2.3.1 Traduzione letterale del testo della Vulgata

    22 Alzatosi presto prese le sue due mogli e altrettante serve con undici figli e attraversò il guado dello Iaboc
    23 e fatti passare tutte le cose che gli appartenevano

    24 rimase solo ed ecco lottava con lui fino al mattino

    25 il quale vedendo che non poteva superarlo, toccò il nervo del suo femore e immediatamente si atrofizzò

    26 e disse a lui: “Lasciami, perché sale già l'aurora”. Rispose: “Non ti lascerò se non mi avrai benedetto”.

    27 Disse dunque: “Qual'è il tuo nome?”. Rispose: “Giacobbe”.

    28 Ma quello disse: “Non sarai affatto chiamato Giacobbe, ma Israele, poiché se sei stato forte contro Dio, tanto più prevarrai sugli uomini”.

    29 Lo interrogò Giacobbe: “Dimmi come ti chiami”. Rispose: “Perché chiedi il mio nome?”. E lo benedisse nello stesso luogo.

    30 Giacobbe chiamò quel luogo Fanuel dicendo: “Ho visto Dio faccia a faccia e la mia anima fu salva.
    31 E lì spuntò il sole subito dopo che era passato da Fanuel egli in verità zoppicava con un piede,

    32 a causa di ciò i figli di Israele non mangiano il nervo che si atrofizzò nel femore di Giacobbe fino al giorno presente per quell'uomo che aveva toccato il nervo del suo femore e era divenuto insensibile.
















    8


    2.4 Traduzione CEI

    23 Durante quella notte egli si alzo, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici bambini e passò il guado dello Iabbok.

    24 Li prese, fece loro passare il torrente e portò di là anche tutti i suoi averi.

    25 Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell'aurora.

    26 Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all'articolazione del femore e l'articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui.

    27 Quello disse: «Lasciami andare, perché è spuntata l'aurora». Giacobbe rispose: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!».

    28 Gli domandò: «Come ti chiami?». Rispose: «Giacobbe».

    29 Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!».

    30 Giacobbe allora gli chiese: «Svelami il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi chiedi il nome?». E qui lo benedisse.

    31 Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuèl: «Davvero – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva».

    32 Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuèl e zoppicava all'anca.

    33 Per questo gli Israeliti, fino ad oggi, non mangiano il nervo sciatico, che è sopra l'articolazione del femore, perché quell'uomo aveva colpito l'articolazione del femore di Giacobbe nel nervo sciatico.





























    9


    3 La rilettura nella bibbia ebraica: Il Profeta Osea

    Nel libro del profeta Osea (Os 12, 4-5) troviamo l’unico riferimento della bibbia ebraica alla vicenda della lotta di Giacobbe. Il testo di Osea si trova all’inizio del libro dei Dodici profeti; la sua iniziale stesura è da molti collocata attorno all’VIII sec a.C., come fissazione scritta e successivo ampliamento dell’attività del profeta Osea avvenuta nel contesto del Regno del Nord al tempo dell’assedio di Samaria.

    La pericope (Os 12, 4-5) appartiene alla terza parte del libro: tutte e tre le parti sono composte come ‘contesa giudiziaria’ (ribh) che YHWH intenta contro il suo popolo; nella terza parte (Os 12-14) la contesa assume uno sfondo storico, in cui la vicenda di Israele è interpretata come storia di peccato. È l’invettiva finale del profeta che denuncia le azioni malvagie di Giuda e di Israele; Dio vuole fare giustizia, ma non ripudia il suo popolo. Allora il profeta ricorda al popolo quali sono le sue origini, chi sono i suoi padri fondatori, qual è la vera identità del popolo che si ritiene giusto davanti al suo Dio1.

    Giacobbe-Israele viene presentato in chiave negativa per dimostrare che il popolo è cattivo fin dalle sue origini: è per sua natura «ingannatore», «ribelle a Dio», «fuggiasco», «guardiano di bestiame»2. Fin dal seno materno è peccatore e continua a peccare nell’età adulta3; si è acquistato la sua posizione di primogenito con la furbizia e con l’inganno e ha carpito la benedizione paterna con la frode. Fin dal grembo materno Giacobbe “soppiantò” (`qb) il fratello Esaù; sia il testo ebraico che quello greco giocano sul duplice significato della radice `qb o ptern che può indicare sia l’azione del soppiantare, ingannare, prendere con frode, sia il calcagno, facendo così riferimento all’episodio della nascita dei due fratelli gemelli (cfr Gen 25, 26).

    Inoltre Giacobbe con superbia lotta con Dio riuscendo a vincere; dal testo però non si evince con chiarezza se Giacobbe lotti proprio con Dio o con un suo messaggero, possiamo solo dedurre dal fatto che i due stichi sono posti in parallelo, che i due termini ´élöhîm e mal´äk corrispondano alla stessa realtà: in conclusione sembra che Giacobbe lotti con Dio nella forma di un angelo dalle sembianze umane.

    Questo testo del profeta Osea può essere visto come una prima interpretazione del passo di Genesi. La tesi si fonda sul fatto che la predicazione di Osea sia avvenuta in epoca posteriore alla fissazione, almeno in forme orali e frammentarie, delle tradizioni che sono confluite nel testo di Genesi. Ma è possibile supporre un ambiente culturale fertile in cui i racconti del Pentateuco abbiano trovato la loro forma definitiva.



    1 Cf. E. ZENGER, «Il libro de Dodici profeti», in Introduzione all’antico testamento, a cura di E. ZENGER, ed. it. a cura di F. DALLA VECCHIA, Queriniana, Brescia 2005, 783-882.
    2 Cf. Os 12, 1-15.

    3 Cf. nota a Os 12, 4 in La Bible de Jerusalem, 21984, ed. it. La Bibbia di Gerusulemme, Dehoniane, Bologna 141996. Per il testo biblico in traduzione italiana si fa riferimento a La Sacra Bibbia, (testo della traduzione in lingua italiana nella versione ufficiale a cura della CEI), Libreria Editrice Vaticana, 2008.


    10

    3.1 Testo di Osea 12, 4-5

    ‘%a'lm;.-la, rf;Y"Üw" 5 `~yhi(l{a/-ta, hr"îf' AnàAab.W wyxia'-ta, bq:å[' !j,B,ÞB; WTT 4 `WnM'([i rBEïd:y> ~v'Þw> WNa,êc'm.yI ‘lae-tyBe( Al+-!N<x;t.YIw: hk'ÞB' lk'êYUw:


    LXT 4 evn th/| koili,a| evpte,rnisen to.n avdelfo.n auvtou/ kai. evn ko,poij auvtou/ evni,scusen pro.j qeo.n 5 kai. evni,scusen meta. avgge,lou kai. hvduna,sqh e;klausan kai. evdeh,qhsa,n mou evn tw/| oi;kw| Wn eu[rosa,n me kai. evkei/ evlalh,qh pro.j auvto,n

    VUL 3 in utero subplantavit fratrem suum et in fortitudine sua directus est cum angelo 4 et invaluit ad angelum et confortatus est flevit et rogavit eum in Bethel invenit eum et ibi locutus est nobiscum

    3.1.1 Traduzione CEI

    4 egli nel grembo materno soppiantò il fratello e da adulto lottò con Dio,

    5 lottò con l'angelo e vinse, pianse e domandò grazia. Lo ritrovò a Betel

    e là gli parlò.





























    11


    4 La rilettura nella LXX: Il libro della Sapienza

    Nel libro della Sapienza (Sap 10, 10-12) viene richiamato l’episodio della lotta con Dio nel contesto di una lettura sapienziale della storia di Israele.

    Il libro della Sapienza è il più recente degli scritti del Primo Testamento; composto originariamente in greco probabilmente nell’ambiente della diaspora alessandrina nel I sec. a.C., è entrato rapidamente nell’uso prima delle comunità giudaiche di lingua greca e poi nelle prime comunità cristiane, che lo hanno inserito nel canone della Bibbia. Il contesto culturale di formazione del libro è molto importante, perché testimonia una prima fase della rielaborazione della fede di Israele nel confronto intenso con le filosofie e i culti ellenistici e con la religiosità e la sapienza egiziana.

    La pericope che interessa si inserisce nella terza parte del libro (Sap 11, 2-19, 22), un ampio commento con tratti midrashici alla vicenda storica di Israele narrata nelle Scritture, che, partendo dai patriarchi, giunge alla rivisitazione sapienziale dell’esodo. La sapienza agisce nella vicenda umana guidando il cammino dei giusti: le storie dei patriarchi da Adamo a Mosè sono rapidamente prese in rassegna focalizzando l’attenzione sull’opera di Dio, attraverso l’introduzione della figura personificata della Sapienza. Non vengono designati direttamente con il loro nome, ma sono chiari i riferimenti ai patriarchi.

    Giacobbe è un «devoto» della Sapienza, un giusto che nelle situazioni avverse della vita riceve sostegno e aiuto da lei, la sua fortuna è nelle sue mani; essa si manifesta anche come rivelatrice del regno di Dio, dona la «la conoscenza delle cose sante», delle realtà superiori e divine. La Sapienza, infine, assegna a Giacobbe la vittoria nella dura lotta, in cui la pietà (euvse,beia) si dimostra più potente di tutto.

    Il libro della Sapienza inquadra l’episodio considerato nel contesto di un’esperienza spirituale, il cui esito finale non dipende dalle forze e dalle capacità di Giacobbe, ma dalla sua pietà. L’episodio diventa una figura esemplificativa dell’esperienza mistica in cui la Sapienza si rivela e rivela le cose di Dio all’uomo giusto (di,kaioj4) che si mantiene saldamente nella pietà (euvse,beia).















    4 Si può tenere presente che il rapporto sapienza-giustizia è un tema nodale del libro; nel termine dikaiosu,nh confluiscono idee diverse di giustizia: dalla virtù greca, alla ceDheq giudaica fino alla dea egiziana Ma’at responsabile del giudizio dei morti. (cf. S. SCHROER, «Il libro della sapienza», in Introduzione all’antico testamento, a cura di E. ZENGER, ed. it. a cura di F. DALLA VECCHIA, Queriniana, Brescia 2005, 598-615)


    12


    VUL 10

    LXT 10

    4.1 Testo di Sapienza 10, 10-12

    au[th fuga,da ovrgh/j avdelfou/ di,kaion w`dh,ghsen evn tri,boij euvqei,aij e;deixen

    auvtw/| basilei,an qeou/ kai. e;dwken auvtw/| gnw/sin a`gi,wn euvpo,rhsen auvto.n evn mo,cqoij kai. evplh,qunen tou.j po,nouj auvtou/ 11 evn pleonexi,a| katiscuo,ntwn auvto.n pare,sth kai. evplou,tisen auvto,n 12 diefu,laxen auvto.n avpo. evcqrw/n kai. avpo. evnedreuo,ntwn hvsfali,sato kai. avgw/na ivscuro.n evbra,beusen auvtw/| i[na gnw/| o[ti panto.j dunatwte,ra evsti.n euvse,beia



    haec profugum irae fratris iustum deduxit per vias rectas et ostendit illi regnum Dei et dedit illi scientiam sanctorum honestavit illum in laboribus et conplevit labores illius 11 in fraude circumvenientium illum adfuit et honestum illum fecit 12 custodivit illum ab inimicis et a seductoribus tutavit eum et certamen forte dedit illi ut vinceret ut sciret quoniam omnium potentior est sapientia

    4.1.1 Traduzione CEI

    10 Per diritti sentieri ella guidò il giusto in fuga dall'ira del fratello,

    gli mostrò il Regno di Dio

    e gli diede la conoscenza delle cose sante; lo fece prosperare nelle fatiche

    e rese il suo lavoro.

    11 Lo assistette contro l'ingordigia dei suoi oppressori e lo rese ricco;

    12 lo custodi dai nemici,

    lo protesse da chi lo insidiava,

    gli assegnò la vittoria in una lotta dura,

    perché sapesse che più potente di tutto è la pietà.





























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    5 La ripresa nei Targumim

    La parola targum significa ‘traduzione’ e ‘interpretazione’; ma fin dall’epoca rabbinica viene usato come termine tecnico per indicare le antiche versioni-parafrasi aramaiche dei testi biblici.

    L’intenzione di queste versioni-parafrasi è rendere accessibile il testo biblico a un popolo che, dopo il ritorno dall’esilio babilonese, non conosce più l’ebraico. Infatti gli esiliati in Babilonia impararono la lingua della Mesopotamia che era l’aramaico, senza tuttavia dimenticare del tutto la lingua ebraica, che veniva appresa per lo studio degli antichi testi solo da un numero ristretto di persone. Al ritorno dall’esilio viene riorganizzato il culto liturgico e si pone il problema della comprensione della Parola proclamata in assemblea. Viene introdotto quindi l’uso di tradurre il testo dall’ebraico all’aramaico: il testo veniva proclamato da un lettore in ebraico e intervallato dalla traduzione in aramaico, che non poteva essere messa per iscritto. Le traduzioni non erano quindi letterali, ma proponevano delle parafrasi e delle interpretazioni più o meno ampie a seconda di chi le aveva composte. Il materiale raccolto in tradizione orale, fu progressivamente messo per iscritto fino alle prime stesure definitive dei Targumim nei primi secoli dell’era cristiana.

    I Targumim sono quindi molto importanti per lo studio dell’interpretazione del testo biblico in ambiente giudaico, perché sono le prime testimonianze scritte di una sorta di lavoro esegetico compiuto per rendere accessibile il testo nelle celebrazioni liturgiche. I Targumim scritti che sono giunti fino a noi mostrano approcci diversi al testo privilegiando l’uno più la traduzione letterale e fedele, l’altro proponendo un’interpretazione più ampia e articolata.

    Del Pentateuco si conoscono oggi quattro Targumim, in un certo modo, interdipendenti fra loro.

    Targum Onqelos, scritto in aramaico babilonese, fu erroneamente attribuito dalla tradizione ad Aquila, autore di una versione greca del testo sacro caratterizzata da un particolare letteralismo in risposta alla traduzione dei LXX che era ampiamente utilizzata in ambiente cristiano; infatti anche il testo del Targum Onqelos è caratterizzato da un particolare letteralismo. Questa tendenza a restare fedeli al testo originario può essere intesa come reazione alle nuove interpretazioni che le comunità cristiane producevano. L’origine del testo è collocata in ambiente palestinese, ma la redazione finale è invece da situarsi in ambiente babilonese fra il II e III sec d.C.

    Targum pseudo-Jonathan (Gerosolimitano I): è un testo importante per la storia dell’esegesi biblica; infatti è una traduzione molto parafrasata che contiene ampie parti di aggadah, proponendo un valido esempio di esegesi ebraica del Pentateuco. È di difficile datazione: una collocazione tardiva attorno al VII sec è supportata da numerose glosse e pericopi in cui si osservano contaminazioni linguistiche o richiami a fatti storici, ma è possibile che sia una riproposizione di un testo più antico prodotto in ambiente palestinese con correzioni e aggiunte posteriori.



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    Targum fragmentarium (Gerosolimitano II): è composto da frammenti del Targum Palestinese, non è una traduzione continua, ma è una collezione di commenti a singoli versetti.

    Targum Palestinese (Neofhyti I): il manoscritto Neophyti I ritrovato nella Biblioteca Vaticana riporta il testo completo del Targum Palestinese della Torah; secondo gli studi testuali è databile con buona probabilità al I o II sec d.C.

    Solo il Targum Onqelos, il Targum Neofiti e il Targum Pseudo-Jonathan riportano il testo di Genesi. L’analisi delle interpretazioni ebraiche della pericope della lotta di Giacobbe si fonda sullo studio di questi testi, secondo quanto proposto da Neri nella sua opera che unisce una sobria analisi delle fonti del testo biblico a alcuni commenti antichi alla Genesi5.


    Nella traduzione della pericope in esame i targumim cercano di dare forma più chiara al testo, nell’intento di chiarire lo strano episodio.

    In primo luogo l’uomo sconosciuto che ingaggia la lotta con Giacobbe viene identificato con “un angelo in forma di uomo” dai Targumim Pseudo-Jonathan e Neofiti; l’avversario è quindi una creatura soprannaturale, ma non Dio stesso. Vincitore, Giacobbe non vede Dio faccia a faccia, perché nessun uomo può vedere Dio e restare salvo (cfr Gen 33, 31); in realtà nel luogo Penuel vede soltanto una moltitudine di angeli. Giacobbe, secondo questi due Targumim, si è “dimostrato superiore con gli angeli del Signore e con gli uomini”; riceve un nome nuovo perché vince sia contro gli angeli che contro gli uomini.

    Il Targum Onquelos, rimanendo più fedele al testo, non esplicita l’identità dell’uomo e il riconoscimento della vittoria con il cambiamento del nome è motivato dal fatto che Giacobbe è “grande davanti al Signore e con gli uomini”. La lotta non sembra coinvolgere creature soprannaturali, anche se al momento di lasciare il luogo che ha nominato Penuel, Giacobbe sembra congedarsi dall’angelo del Signore. Questo Targum lascia quindi aperta l’interpretazione sull’identità dell’uomo.

    Tratto comune a tutti i Targumim è un particolare interesse per la presenza di angeli, creature soprannaturali che fungono da legame fra le realtà umane e quelle divine; la presenza di mediazioni fra umano e divino è importante anche nella filosofia greca, anche se non si caratterizzano propriamente come angeli; Filone da queste somiglianze prende le mosse per effettuare un discorso che unisca l’unicità e la trascendenza del Dio di Israele, con la necessità di mediazioni che rendano possibile la sua manifestazione all’uomo.











    5 Cf. Genesi, a cura di U. NERI, Gribaudi, Torino 1986, p. LII-LIV.


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    6 Il commento giudaico di Filone di Alessandria

    Filone è un giudeo della diaspora, che vive ad Alessandria tra il 20 a.C. e il 50 d.C. La formazione ricevuta unisce l’educazione nella religione giudaica e l’apprendimento della filosofia greca. È molto attivo nella comunità giudaica sia in ambito culturale, sia nell’impegno politico contro le persecuzioni dell’imperatore Caligola.

    Nelle sue opere cerca di fondere insieme la rivelazione ebraica e la filosofia greca, mettendo le basi per una prima teologia ebraica. La sua riflessione filosofica non è mai slegata dal testo sacro, ma si svolge come esegesi di pericopi e versetti accuratamente scelti per sostenere l’argomentazione; dagli Stoici assume il metodo dell’esegesi allegorica, che avrà notevole successo nella storia dell’esegesi biblica cristiana e ebraica, e ne fa un uso abbondantissimo nell’intento di superare il senso letterale del testo e scoprire un senso superiore e spirituale.

    La sua elaborazione teologica crea una continuità fra dato biblico e filosofia e, unendo il Dio personale della Torah alle speculazioni platoniche e stoiche, sostiene un’innovativa teoria del Logos che avrà importanti sviluppi nel neoplatonismo e nella teologia cristiana patristica. L’idea di uomo, che sta alla base del metodo esegetico di Filone è fondata nell’antropologia di Platone e Aristotele; nel procedimento conoscitivo l’uomo deve superare il senso letterale (aspetto corporeo) per giungere con il metodo allegorico a un senso superiore (aspetto spirituale).

    Sono attribuite a Filone circa settanta opere, la maggioranza sono commenti al Pentateuco e scritti filosofici; le sue opere sono conosciute e apprezzate soprattutto nella scuola alessandrina con Clemente Alessandrino e Origene, ma si diffondono anche nel resto del modo greco (Eusebio, Gregorio di Nissa) e nel mondo latino (Ambrogio e Girolamo)6.

    Per il commento al testo considerato, sono di particolare importanza solo alcuni fra i commentari allegorici alla Genesi: De ebrietate, De migratione Abrahae, De mutatione nominum, De somnis, Legum allegoriarum.


    Filone considera il brano della lotta di Giacobbe di grande importanza per l’interpretazione dell’intera Torah; lo dimostra il fatto che spesso nelle sue opere richiama questo passo biblico. Nella sua vasta opera egli sviscera il brano e lo interpreta sotto varie prospettive in rapporto alle necessità della sua argomentazione.

    Filone coglie nella pericope la narrazione di un episodio paradigmatico del cammino spirituale; la lotta che Giacobbe sostiene con un uomo sconosciuto è compresa come una tappa significativa della vita dell’asceta, che con lo sforzo fisico e l’impegno della volontà cerca di giungere alla conoscenza di Dio.





    6 Cf. H. R. DROBNER, Patrologia (Lehrbuch der Patrologie, Verlag Herder, Freisburg-Basel-Wien 1994), presentazione di A. DI BERARDINO, trad. dal ted. di P.S. NERI e F. SIRLETO, Piemme, Casale Monferrato (AL) 22002, 194-195.


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    6.1 La figura di Giacobbe

    Innanzitutto occorre analizzare come è delineata la figura di Giacobbe nell’opera di Filone, come viene caratterizzato questo personaggio nella sua esegesi. Secondo l’etimologia biblica, egli

    è il ‘soppiantatore’, l’uomo intraprendente che si destreggia con scaltrezza e intelligenza in situazioni avverse, che non si da mai per vinto, che non disdegna l’inganno e la lotta per raggiungere il suo obiettivo. Per questo Filone lo assume come figura del lottatore.


    Proprio il piacere che credeva di aver atterrato con una presa “al tallone” (cioè di aver soppiantato) e tratto in inganno l’intelletto virtuoso, sarà a sua volta soppiantato da Giacobbe, colui che si esercita nella lotta; non la lotta del corpo, ma quella che l’anima intraprende contro quei modi di vita che le si oppongono nella guerra alle passioni e ai vizi. E Giacobbe non lascerà la presa “al tallone” della passione che gli si oppone, finché questa non soccomberà e non riconoscerà d’essere stata soppiantata e sconfitta per ben due volte: quando le è stata sottratta la primogenitura e quando le è stata sottratta la benedizione7.

    Questo brano del Legum allegoriarum si inserisce nel contesto dell’argomentazione sulla ricerca della sapienza, intesa non in senso strettamente intellettuale, ma come sapienza di vita, un modo di vivere secondo il disegno di Dio. Filone fa proprio un argomento comune alla tradizione filosofica di stampo stoico, la dialettica fra intelletto e piacere, fondandolo sull’esegesi allegorica di alcuni episodi della Torah. Questo topos allegorico viene articolato nel brano secondo alcuni episodi della vita di Giacobbe e Esaù. Sfruttando il gioco di parole presente nel testo biblico fra tallone pte,rna e il verbo soppiantare pterni,zw8, viene costruita una metafora di tipo sportivo che illustri la lotta dell’intelletto contro il piacere. La presa al tallone diventa paradigma delle relazioni fra i due fratelli: ancora prima di nascere, i due fratelli si urtavano nel grembo materno9; poi al momento del parto, il primo ad uscire fu Esaù, ma subito dopo seguì Giacobbe che lo teneva per il calcagno con la mano10; ci sono poi due episodi chiave nella loro vita, in cui Giacobbe con astuzia ha la meglio sul fratello: quando compra la primogenitura del fratello con un piatto di lenticchie11 e quando con un tranello si fa dare la benedizione paterna al suo posto12. Fra i due figli di Isacco esiste quindi una rivalità originaria che li caratterizza dalla nascita per tutta la loro vita.

    Per questo motivo Filone può accostare Giacobbe e Esaù rispettivamente all’intelletto virtuoso e al piacere. Nonostante l’intelletto virtuoso sia inizialmente soppiantato dal piacere, non si deve dare per vinto; così come anche Giacobbe, nato per secondo, in un certo senso sconfitto in partenza, tenacemente si è esercitato nella lotta riuscendo infine a capovolgere la situazione sfavorevole.


    7 FILONE, Legum allegoriarum, III, 190, trad., note e apparati a cura di R. RADICE in La filosofia mosaica. La creazione del mondo secondo Mosè. Le allegorie delle leggi, Rusconi, Milano 1987, 214-215.

    8 Letteralmente possiamo tradurre pterni,zw con ‘stendere con una presa al tallone’ facendo un esplicito riferimento al mondo sportivo. Cf. Commento a Legum allegoriarum, III, 190, di R. RADICE in FILONE, Legum allegoriarum, 512.
    9 Cf. Gen 25, 22.
    10 Cf. Gen 25, 25-26.

    11 Cf. Gen 25, 29-34.

    12 Cf. Gen 27.


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    L’esperienza della lotta è immediatamente traslata sul piano spirituale tanto che è difficile mantenere distinti i due livelli del discorso. L’intelletto virtuoso deve prepararsi allo scontro esercitandosi, deve sviluppare le doti e acquisire le competenze per il progresso spirituale; ma poi deve combattere alacremente non scoraggiandosi: la presa tenace di Giacobbe è connessa con l'evitare che quei modi di vita che scaturiscono da passioni e vizi possano destabilizzare il cammino delle virtù. Sconfiggere le passioni non è infatti cosa semplice; il vizio appare spesso più appetibile della virtù, soprattutto quando la lotta interiore si fa più intensa. Non basta quindi aver scelto una volta per tutte la via della sapienza, ma bisogna essere pronti a rinunciare al piacere e al vizio in ogni concreta situazione, sostenendo la lotta con un intelletto preparato e forte, che non demorde e non rinuncia nelle avversità.

    6.2 Ricerca della Sapienza e parola di Dio

    Il lavoro filosofico di Filone è sempre accompagnato da uno sforzo sintetico, con l’intento di rendere più esplicita l’armonia che sussiste fra pensiero greco e religione ebraica; egli è convinto che i filosofi greci antichi siano venuti a contatto in qualche modo con la rivelazione del Dio di Israele e che questo incontro abbia dato origine al pensiero greco con la sua mirabile ricerca della vera sapienza. Perciò egli cerca di rimettere insieme il Logos greco con il Dio di Israele che si rivela nelle Scritture.

    La vera sapienza è per l’uomo la conoscenza di YHWH, che si manifesta al suo popolo attraverso l’alleanza stabilita nella sua Parola. Dio dona al popolo la Legge, segno dell’elezione e strumento con cui lo ammaestra. Solo la parola di Dio può essere maestra e guida per l’uomo in un processo in cui Dio stesso si fa vicino all’uomo e lo chiama a sé nella fedeltà all’alleanza; questo patto che il Signore stipula con il suo popolo è promessa di salvezza nella conoscenza di YHWH. La Legge è la formatrice per eccellenza del pio israelita; studiando la Torah si conosce con la ragione e la pratica delle virtù colui che l’ha donata agli uomini; così la pratica della Torah nella vita quotidiana è ascesi dell’uomo a Dio.

    6.3 Giacobbe e l’esperienza ascetica

    Filone tenta di spiegare il processo formativo dell’uomo commentando insieme due passi enigmatici e fondamentali della vicenda di Giacobbe, il sogno e la lotta, e costruendo un'affascinante percorso allegorico cerca di condurre il lettore attraverso la Torah a una maggiore comprensione dell’esperienza mistica.


    La Parola divina, dal canto suo, lo ascolta con piacere e accoglie l’atleta in un primo momento come futuro discepolo; ma dopo, quando ha riconosciuto le sue attitudini naturali, avvolge le mani nelle corregge alla maniera di un allenatore, lo chiama all’esercizio, lo sfida e lo costringe a lottare, finché non riesce a sviluppare in lui una forza che tenga testa alla sua, mutandogli in






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    occhi le orecchie, per ispirazione divina; poi una volta che lo ha plasmato secondo il nuovo modello, gli dà il nome di Israele, il veggente13.

    Giacobbe è in viaggio da Bersabea verso Carran, per andare dallo zio Labano (cfr Gen 28, 10 ss); giunta la notte si stende per riposare e si pone sotto il capo una pietra. Questa pietra diventa nell’esegesi di Filone la parola divina, sulla quale Giacobbe appoggia il capo, sede della sua intelligenza: così facendo Giacobbe pone tutta la sua vita sulla Parola, con essa dialoga e da essa si fa ammaestrare14.

    Giacobbe è icona dell’atleta di Dio, dell’asceta. Filone, probabilmente affascinato dalle gare di atletica comuni nella cultura romano-ellenistica, assume l’immagine dell’atleta come paradigma dell’asceta: l’allenamento metodico e faticoso, lo sforzo fisico per raggiungere il difficile obiettivo, la guida attenta di un allenatore; questi aspetti sono trasposti per spiegare il cammino spirituale, che deve essere curato nei particolari, perseverando nella fatica e negli insuccessi sotto la guida di un eccellente maestro quale è la parola divina.

    Da buon allenatore, la parola di Dio riconosce le attitudini naturali di Giacobbe e gli propone esercizi sempre più difficili affinché progredisca nella formazione, fino al momento della sfida diretta, quando l’allenatore mette alla prova il suo allievo allo scopo di fargli compiere un ulteriore progresso, per farlo giungere alla sua stessa abilità, per conformarlo a se. Giacobbe viene costretto dalla Parola alla lotta come esercizio finale di formazione alla conoscenza di YHWH; in questo momento per ispirazione divina l’uomo viene riplasmato secondo un nuovo modello; non bastano più le orecchie, capaci di udire gli ammonimenti della Parola, ma occorrono degli occhi, capaci di vedere le realtà divine. Questa mutazione è sancita dal cambiamento del nome: Giacobbe diventa Israele, cioè il veggente, ‘uomo che vede Dio’ secondo un’etimologia popolare comune e cara a Filone.


    Dunque, dopo che Giacobbe, l’asceta ebbe lottato fino in fondo per conquistare il premio della virtù, si decise a scambiare l’uso delle orecchie con quello degli occhi, le parole con i fatti, la sua condizione di progredente con quella di perfetto15.

    Anche in questo passaggio del De ebrietate ritorna il tema della lotta di Giacobbe come esperienza di progresso spirituale e ascesi nella virtù, accostato al topos allegorico del passaggio udito-vista. Se il cammino spirituale è un percorso che conduce a una conoscenza maggiore di Dio,

    è possibile associare ad esso varie tappe, individuabili attraverso le modalità della conoscenza sensibile della natura umana. L’udire e il vedere sono due modi di accostare la realtà che si


    13 FILONE, De somniis, I, 129, trad., note e apparati a cura di C. KRAUS REGGIANI in L’uomo e Dio. Il connubio con gli studi preliminari. La fuga e il ritrovamento. Il mutamento dei nomi. I sogni sono mandati da Dio, Rusconi, Milano 1986, 473.

    14 Cf. FILONE, De somniis, I, 127-128, 473.

    15 FILONE, De ebrietate, 82, trad., note e apparati di R. RADICE in La migrazione verso l’eterno. L’agricoltura. La piantagione di Noè. L’ebrietà. La sobrietà. La confusione delle lingue. La migrazione di Abramo, Rusconi, Milano 1988, 242.


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    caratterizzano per un grado di certezza diversa: la vista è considerata superiore all’udito; quindi colui che cerca la sapienza deve cercare di passare dal semplice ‘ascolto’ al 'vedere’.

    Non è facile chiarire a che cosa corrispondano queste tappe nell’itinerario spirituale che Filone vuole descrivere e quali siano le modalità di realizzazione di questo da parte dell’uomo. Possiamo ritenere che, secondo un impianto platonico, Filone vedesse un itinerario formativo in tre tappe principianti-progredienti-perfetti; non si tratta però di un processo continuo e graduale di progressivo raffinarsi delle virtù, ma ci sono salti “drammatici” fra un livello di perfezione e l’altro: la grazia divina irrompe nella vita dell’uomo e gli permette il passaggio, altrimenti impossibile, ad un nuovo stadio di perfezione16.

    6.4 I maestri della sapienza

    Nel De ebrietate Filone sviluppa l’itinerario formativo sotto l’aspetto educativo: per crescere nella virtù è necessario affidarsi a dei maestri di vita che insegnino la verità e diano l’esempio di rettitudine morale. Prendendo l’immagine dei genitori, individua due formatori: l’uomo deve riconoscere in Dio il vero padre che dona la sua «forza» alle creature, cioè dona la retta ragione capace di conoscerlo e onorarlo; d’altra parte l’educazione ricevuta da uomini saggi che conoscono le leggi «stabilite, universalmente ritenute come giuste» può essere vista come una madre che alleva il figlio. Allora colui che vuole raggiungere la perfezione della virtù, cioè la contemplazione dell’Essere, sarà «tenuto in pregio da entrambi i genitori». Questa visione duplice dei formatori viene sostenuta richiamando il testo sacro: Giacobbe, che si è «dimostrato forte con Dio e con gli uomini», è il giusto dei Proverbi che prende «buone decisioni al cospetto di Dio e degli uomini» (Pr 3, 4), che viene educato alla sapienza naturale ricercata dai filosofi e alla Parola rivelata, secondo la Legge di Israele17.

    Il discepolo di Dio può acquistare la virtù in vari modi; pur avendo tutti lo stesso fine, coloro che si avventurano verso una vita virtuosa, non compiono tutti lo stesso itinerario formativo. Questo aspetto è sottolineato da Filone utilizzando il confronto allegorico fra i tre patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe: essi rappresentano rispettivamente una virtù acquisita con l’apprendimento, per natura e con l’esercizio; i tre patriarchi son modello di tutti gli uomini che «non hanno preso spunto dallo stesso modello, ma tendono allo stesso fine». Abramo ha ascoltato la parola di Dio e da essa è stato educato alla vita virtuosa; egli ha imparato la via che conduce al bene. Isacco, «fu guidato dalla propria natura che non ascoltava altro se non se stessa e non apprendeva che da se stessa». Infine Giacobbe, come già notato, è colui che si esercita, che si affida «alla preparazione pratica e agli esercizi richiesti per sostenere le fatiche delle gare».

    Questi tre modi di acquisire la sapienza sono distinti solo in apparenza; sono infatti tre aspetti dell’unico processo di formazione dell’uomo: «il modo ascetico, infatti, è un derivato di quanto si




    16 Cf. nota 39 al De ebrietate, 470.

    17 Cf. FILONE, De ebrietate, 80-84, 241-242.


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    raggiunge con l’apprendimento; quello che deriva, invece, da predisposizione naturale è apparentato con i primi due, perché sta alla base di tutti e tre come una radice».

    Giacobbe, nella Bibbia è detto figlio di Abramo e figlio di Isacco; nell'esegesi filoniana, la paternità di Abramo, «perfezionato dall'insegnamento», nei confronti di Giacobbe, «formato dell'esercizio», è accostata al rapporto che sussiste fra la capacità di ascoltare per apprendere l'insegnamento e la capacità di esercitarsi per superare le prove. Filone a questo punto vuole fare un'ulteriore approfondimento: constatando che Giacobbe viene chiamato a volte figlio di Abramo e a volte figlio di Isacco, egli cerca di dimostrare a partire dal testo biblico questo cambiamento strutturale che avviene in Giacobbe a seguito della dura lotta con l'uomo misterioso: egli diventato Israele, «colui che vede Dio», non è più solo uno che con l'esercizio derivato dall'apprendimento cerca di raggiungere la vera sapienza, ma è uno che, per un dono di grazia che perfeziona la sua natura, ora può contemplare con i suoi occhi la visione di Dio. Per questo, dice Filone, «lo stesso soggetto a volte è chiamato Giacobbe avente per padre Abramo, altre volte Israele avente per padre Isacco». Cioè non è solo grazie alle capacità di ascolto ed esercizio che l'uomo giunge alla vera sapienza, ma per quel dono di Dio che perfeziona per grazia la natura creata dell'uomo.18

    Se dunque l’asceta, dedito all’esercizio, si slancia con tutte le sue energie alla mèta e riesce a vedere in piena luce ciò che prima vedeva confusamente nel sogno, allora riceve l’impronta di un carattere superiore e il nome di Israele, colui che vede Dio, in luogo di Giacobbe, il soppiantatore, e dichiara suo padre non più Abramo, che ha appreso con l’insegnamento, bensì Isacco, che è nato buono per natura19.

    6.5 L’esito della lotta spirituale

    Giacobbe ha condotto con fervore la lotta e non ha lasciato andare colui che lo aveva colpito così duramente; il suo ardore e coraggio sono applicabili all’uomo virtuoso che scaccia con veemenza la passione e che fonda il suo animo stabilmente sulla virtù, anche se le tentazioni più insidiose vorrebbero smuovere le sue fondamenta. Anzi è proprio il lottatore esperto saper buttare a terra l’avversario con una presa al tallone: così, rovesciando le fondamenta apparentemente solide delle passioni, il saggio può porsi con stabilità nella virtù.


    ...il nome di Giacobbe fu cambiato in quello di Israele e non a caso. Per quale motivo? Perché Giacobbe significa il ‘soppiantatore’, Israele invece ‘colui che vede Dio’. Ora è tipico del soppiantatore, quando si esercita nella virtù, smuovere, scuotere e rovesciare le fondamenta su cui poggia la passione, anche se in esse vi è qualcosa di solido e stabile; e questo di solito non avviene senza grande sforzo e fatica, ma solo se uno sostiene fino in fondo le lotte per








    18 Per tutta l’argomentazione: cf. FILONE, De somniis, I, 166-172, 484-486.

    19 FILONE, De somniis, I, 171, 486.


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    conquistare la saggezza, se affronta gli esercizi dell’anima e si batte contro i ragionamenti che gli si oppongono e lo afferrano alla gola20.

    Nel De mutatione Filone svolge un’esegesi di alcuni brani della Scrittura avendo come punto focale la questione del cambiamento dei nomi dei personaggi; in questo brano tratta appunto del nuovo nome dato a Giacobbe dopo la lotta. Partendo da una valutazione etimologica, Filone sottolinea nuovamente due caratteri peculiari del personaggio: dapprima l’abilità nell’ esercizio, la caparbietà, la forza e il coraggio del soppiantatore, in un secondo momento la nuova capacità acquisita di poter vedere Dio.

    Emerge anche un altro elemento dell’argomentazione filoniana: la lotta spirituale va sostenuta «fino in fondo», cioè l’uomo che vuole percorrere il cammino dell’ascesi verso Dio non deve scoraggiarsi nella difficoltà, ma con grande sforzo e fatica deve opporsi a quelle forze spirituali che lo allontanano dal suo alto obiettivo. Giacobbe, come detto più sopra, ha nella sua indole profonda questa caparbietà, fin dalla nascita; anche in questo episodio egli non molla la presa al suo avversario, nonostante, colpito duramente, si sia dimostrato più debole di colui che gli chiede di essere liberato.


    Queste disposizioni e altre simili sono simboli dell’anima che nel suo atteggiamento interiore si mantiene immacolata per Dio e in quello esteriore rimane pura in rapporto al mondo e alla vita umana. Colgono in questo segno le parole dette al competitore vittorioso che si dispone a cingersi la corona del trionfo. La proclamazione della sua vittoria suona così: «Sei stato forte con Dio e con gli uomini» (Gen 32, 29)21.

    L’aspetto interiore e spirituale di questa lotta viene sottolineato anche in altri passi. La proclamazione del nuovo nome di Giacobbe vien motivata dalla Scrittura dal fatto che Giacobbe si

    è dimostrato forte (cfr Gen 32, 29 nella versione greca) con Dio e con gli uomini. Questa affermazione trasposta sul piano spirituale viene ad indicare due disposizioni dell’anima progrediente: una disposizione interiore, per cui l’anima deve conservarsi pura e immacolata per poter accedere a una relazione con Dio, e una disposizione esteriore che implica un certo modo di rapportarsi con il mondo e con gli altri uomini. Giacobbe è quindi un ‘simbolo’ dell’anima, un’immagine usata da Filone per esemplificare l’itinerario formativo dell’anima fondandosi sull’autorità indiscussa della Scrittura.

    Possiamo aggiungere un nuovo elemento all’esegesi del brano considerato: al «competitore vittorioso» viene assegnata una «corona del trionfo». Anche l’immagine della corona è tratta dal contesto delle gare atletiche del modo ellenistico: è il segno della vittoria con cui agli atleti veniva cinto il capo. Giacobbe è proclamato «forte», per questo riceve la corona.




    20 FILONE, De Mutatione, 81, trad., note e apparati di C. KRAUS REGGIANI, in L’uomo e Dio, Rusconi, Milano 1986,
    335.
    21 FILONE, De Mutatione, 44, 322.


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    A questo punto però occorre focalizzare due questioni relative alla «corona del trionfo»: in primo luogo l’esito della competizione non è così chiaro dal testo, ma Filone sembra assegnare in sostanza la vittoria a Giacobbe; inoltre resta da chiarire in cosa consista a partire dal testo questa corona ricevuta in premio e a cosa corrisponda nell’esegesi filoniana.

    6.6 La visione di Dio

    La continuazione del brano precedente tratto dal De mutatione, facendo perno sul cambiamento del nome, contrappone al lottatore Giacobbe, il veggente Israele; quest’ultimo esce vittorioso dalla «sacra lotta».


    È proprio, al contrario, di chi vede Dio non uscire mai dalla sacra lotta senza corona, ma riportare invece i premi della vittoria. E quale corona più fiorita e più adatta si potrebbe intrecciare, per l’anima vittoriosa, della facoltà grazie alla quale potrà vedere con estrema chiarezza l’Essere supremo? Bello è il premio proposto all’anima che si esercita: l’essere messa in grado di aprire gli occhi alla visione di Colui che solo è degno di contemplazione22.

    La corona ricevuta in premio è quindi il dono della Visione, la possibilità contemplare YHWH «faccia a faccia» (Gen 32, 31). Filone insiste molto sulla grandezza di questo dono e sull’effettiva possibilità per l’anima vittoriosa di riceverlo.

    Nella filosofia greca la contemplazione dell’Essere da parte dell’intelletto umano che viene educato alla vera sapienza, non solo è una possibilità auspicabile, ma un obiettivo raccomandabile a ciascuno: l’uomo può, anzi deve, giungere alla Visione per poter realizzare se stesso. Certamente questo Essere non è il Dio della rivelazione ebraico-cristiana, tuttavia il concetto di un qualche possibile incontro fra l’uomo e il supremo Essere è già elaborato nel pensiero greco, secondo categorie di mediazione fra realtà umana e divina dipendenti dai vari sistemi filosofici. Inoltre nei culti della religione ellenistica, il contatto fra umano e divino era una cosa piuttosto comune; nella produzione letteraria sono molti i racconti che coinvolgono uomini e dei.

    Nella religione giudaica è ammesso un certo tipo di rapporto con YHWH, anzi è Egli stesso che si rivela al popolo eletto donando la sua Parola. Ma la vera e propria Visione non è permessa alla creatura umana, che a motivo della sua indegnità non può stare al cospetto del Santo: la santità come attributo essenziale di YHWH implica l’idea di inaccessibilità, separazione e trascendenza. I serafini possono contemplare il trisagion velandosi il volto (cfr Is 6,2); fra gli uomini il privilegio della Visione è riservato a Mosè ed Elia, gli unici nella Scrittura che hanno visto la santità di Dio e hanno avuto salva la vita. Queste esperienze sono descritte nella Scrittura con un linguaggio figurato che conserva l’inadeguatezza dell’uomo e la trascendenza di Dio: si tratta di un roveto ardente (cfr Es 3, 1-6) o di un passaggio alle spalle (cfr Es 33, 18-23) per Mosè, di un vento leggero per Elia (cfr 1Re 19, 12-14).




    22 Filone, De Mutatione, 81-82, 335.


    23


    Nei due episodi di teofania sul monte Oreb a Mosè e a Elia è possibile notare un elemento comune: la custodia del volto. Infatti a Mosè viene manifestata la Gloria di Dio, ma YHWH gli nasconde il suo Volto, perché «nessuno può vedermi e restare vivo» (Es 33, 20). Analogamente Elia sul monte di Dio, si accorge della sua Presenza in un vento leggero e subito «si coprì il volto con il mantello» (1Re 19, 13). Questo atteggiamento è comune anche ai serafini che contemplano il Santo coprendosi il volto con le loro ali.

    Nel brano considerato, la manifestazione divina a Giacobbe sembra discostarsi da questo modello di teofania. In primo luogo non è chiaro che inizialmente si parli di Dio o di un suo angelo, ma compare improvvisamente un uomo misterioso che lotta con lui; solo alla fine si comprende in modo indiretto l’identità di questo personaggio. In secondo luogo si accentua particolarmente l’aspetto della Visione a faccia a faccia.

    Filone in questa linea sottolinea il fatto che Giacobbe abbia veramente visto il volto di Dio come esito vittorioso della sua ascesi spirituale e della grazia divina; ciò è sancito dal cambiamento del suo nome in Israele, che indica la nuova identità dell’uomo in grado di vedere Dio, e dal nome che Giacobbe stesso assegna al termine della sua esperienza al luogo dell’incontro: non è il monte Oreb, ma Penuel, ovvero ‘volto di Dio’.


    Giacobbe, in effetti, è il nome di colui che scalpitando si prepara alla lotta e allo scontro, ma che ancora non ha vinto. Ma quando fu chiaro che egli era in grado di vedere Dio, allora il suo nome fu mutato in quello di Israele23.

    Quindi la «corona del trionfo» che Giacobbe riceve dopo la sua competizione vittoriosa è la possibilità di contemplare Dio attestata dal fatto che gli viene assegnato un nome nuovo; è il dono di una nuova identità, una mutazione esistenziale della persona nel suo rapporto con Dio. La corona non è semplicemente un orpello posto sopra il capo, ma è un rinnovamento interiore, un salto “drammatico” ad una tappa successiva del cammino ascetico. Possiamo vedere anche nell’assegnazione del nome nuovo la grazia divina che raggiunge l’uomo per permettergli la Visione, altrimenti impossibile all’indegna creatura nonostante tutto il suo impegno nello sforzo di ascesi.

    6.7 La richiesta del nome e la benedizione

    L’esito della lotta notturna è la vittoria di Giacobbe; ma durante la concitata lotta in cui i contendenti si rotolano a terra e si coprono di polvere24, egli, dopo essere stato colpito, riesce a prendere il suo strano avversario. Lo trattiene per ottenere la sua benedizione, ma in primo luogo gli viene dato un nome nuovo. Lo sconfitto prima di benedire il vincitore gli dona un nome nuovo. Il nome Israele e la benedizione sono altri due aspetti che caratterizzano la vittoria di Giacobbe.



    23 FILONE, De Migratione, 200-201, trad., note e apparati di R. RADICE, in La migrazione verso l’eterno, Rusconi, Milano 1988, 399.

    24 Cf. Berešit Rabbà, 77, 3, trad. e note di A. Ravenna, a cura di T. FEDERICI, UTET, Torino 1978, 639-640.


    24

    Così dopo la lotta sostenuta per la conquista della virtù, l’asceta dice all’invisibile sopraintendente: «Dimmi il tuo nome», e quegli risponde: «Perché mi chiedi come mi chiamo?» (Gn 32, 30) e non rivela il suo nome personale e proprio. “deve bastarti –intende dire- trarre beneficio dalle mie benedizioni, ma quanto ai nomi che stanno a indicare gli esseri creati, non cercarli nel caso di nature incorruttibili”25.

    Filone ancora nel De mutatione commenta questo episodio secondo la chiave della conoscenza: chiedere il nome di una cosa o di una persona significa cercare di cogliere la sua realtà profonda. Ma la capacità umana di conoscere è limitata dal fatto di essere creatura: solo Dio conosce ogni cosa. In particolare l’uomo deve riconoscere che il suo conoscere è materiale; le realtà incorruttibili sono a lui superiori e perciò non totalmente intellegibili per l’intelletto umano. Giacobbe quindi deve essere umile e riconoscere che colui che ha di fronte gli è superiore perché appartiene al mondo delle nature totalmente spirituali; l’«invisibile sopraintendente» non può acconsentire alla richiesta dell’asceta di rivelare la sua identità, anzi si stupisce della sua inopportuna richiesta.

    Ma in verità il personaggio misterioso rivela la sua identità in un altro modo. Giacobbe ha la possibilità di lottare con lui e, nonostante la sua inferiorità, riesce a essere vincente, riesce a trattenere l’invisibile avversario per chiedergli il nome. Ma riceve ben di più del suo nome: la benedizione è l’azione di Dio che si manifesta nel suo legame con la creatura. Allora proprio nel dono della sua benedizione, YHWH si manifesta a Giacobbe in un modo che supera le modalità conoscitive dell’intelletto umano nella realizzazione dell’esperienza mistica. Israele è il vero sapiente26, l’uomo che, giunto al culmine della sua formazione spirituale, ha ricevuto la grazia della divina visione, «è la mente che contempla Dio e il mondo»27.

    6.8 Il valore dei nomi

    La speculazione esegetica di Filone si sofferma abbondantemente sull’etimologia dei nomi, come punto di partenza del discorso filosofico. L’etimologia proposta da Filone per i nomi Giacobbe e Israele è piuttosto originale, ma deriva probabilmente più da un’interpretazione popolare dei nomi, che da un’analisi linguistica.

    Il nome28 Israele (iSrä´ël), attestato in Gen 32, 29 per la prima volta nella Bibbia viene assegnato a Giacobbe perché, come afferma l’autore sacro, “hai combattuto (Särîºtä) con Dio e con gli uomini e hai vinto”29. In questo modo il nome Israele viene ricondotto alla radice Srh, che significa in base al contesto ‘lottare’, ‘contendere’, ‘litigare’, ma anche ‘perseverare’ o ‘persistere’.


    25 FILONE, De Mutatione, 14, 313.

    26 Cf. FILONE, De Migratione, 38, 367: «Il Veggente altri non è che il sapiente».

    27 FILONE, De Somniis, II, 173, 486.

    28 Per l’analisi dell’etimologia dei nomi Israele e Giacobbe: cf. H.J. Zobel, iSrä´ël, in Theologisches Wörterbuch

    zum Alten Testament, a cura di G. J. BOTTERWECK e H. RINGGREN, Stuttgart 1982 (ed. it.: Grande Lessico dell’Antico Testamento, a cura di P. G. BORBONE, Paideia, Brescia 2003), vol VI, 992-998; H.J. Zobel, ya`áqöb, in Theologisches

    Wörterbuch zum Alten Testament, vol. IV, 40-72.
    29 Gen 32, 29.


    25


    Israele è ‘colui che ha lottato, che ha perseverato contro Dio’. Questa ipotesi è supportata anche dal testo di Osea 12, 4-5 che commentando brevemente questo episodio, ripropone nuovamente la radice Srh per descrivere l’agire di Giacobbe contro Dio e contro l’angelo. Quindi l’etimologia popolare considera generalmente il nome Israele composto di un elemento verbale e di un elemento teoforo; nel testo biblico, l’elemento teoforo el è considerato oggetto dell’azione, ma si discute la possibilità che ne sia il soggetto, come dimostra l’onomastica più diffusa nella lingua semitica. Israele allora è ‘Dio che lotta, che persevera’: il popolo eletto è custodito da un Dio che lotta e persevera nonostante le sue infedeltà.

    La versione greca supporta questa l’interpretazione biblica traducendo la radice Srh con il verbo evniscu,w che significa ‘diventar forte’.

    Filone invece fa derivare il nome Israele da ish ra´ah el interpretando come ‘colui che vede

    Dio’.

    Il nome Giacobbe (ya`áqöb) nell’etimologia biblica viene legato principalmente all’episodio in cui Giacobbe strappa la benedizione dell’anziano padre Isacco al fratello Esaù, il quale dice: “Forse perché si chiama Giacobbe mi ha soppiantato già due volte?”30. Dopo aver carpito al fratello maggiore la primogenitura per un piatto di lenticchie, ora Giacobbe lo priva della benedizione paterna con l’inganno. Il nome Giacobbe è collegato alla radice `qb che nell’uso verbale significa ‘sorprendere’, ‘soppiantare’, ‘ingannare’, ‘imbrogliare’, mentre nell’uso nominale significa calcagno (`eqeb), richiamando l’episodio della nascita dei due fratelli gemelli: Giacobbe, che al momento del parto, afferra il calcagno del fratello Esaù (cfr Gen 25, 24-26). Questa etimologia è attestata anche dal brano di Os 12, 4-5.

    La versione greca sia in Gen 27, 36 che in Os 12, 4 traduce la radice `qb con il verbo pterni,zw, che significa ‘superare in astuzia’; il greco usa questa stessa radice per indicare il calcagno (pte,rna) in Gen 25, 26.

    6.9 L’anca irrigidita

    È emerso che nell’esegesi filoniana la figura di Giacobbe sia topos allegorico dell’asceta che raggiunge la virtù con l’esercizio faticoso e assiduo e la perseveranza nelle avversità e nelle tentazioni insistenti delle passioni. Filone sottolinea anche il ruolo della grazia divina che, in questo processo di formazione, fa compiere progressi altrimenti impossibili.

    Nel brano considerato Filone coglie un ulteriore sviluppo del discorso sulla virtù acquisita dall’uomo saggio.


    Perché, mio amabile lettore, secondo il santo Mosè non esiste in un corpo mortale virtù solidamente piantata, ma solo una virtù che è una specie di stato di intorpidimento e, per poco




    30 Gen 27, 36.


    26

    che sia, zoppica. Egli dice infatti: «Gli fece rattrappire l’arco della coscia ed egli zoppicò a causa dell’anca» (Gen 32, 26. 32)31.

    Giacobbe subisce un colpo all’anca dal misterioso contendente, e alla fine della lotta, ricevuta la benedizione, se ne va zoppicante da Penuel; lo scontro ha lasciato un segno importate sul suo corpo; l’arco della coscia rattrappito impedisce a Giacobbe di camminare bene. Proprio lui che ha conquistato la virtù somma, ha ricevuto in dono la Visione, ora ha il corpo menomato nella sua mobilità, è ridotta la sua forza e il suo vigore. Filone interpreta la situazione descritta in questo passo della Torah come un ammonimento di Mosè sulla virtù umana: l’uomo non può ambire a una virtù stabile per sempre, ma sarà sempre incostante e debole; la virtù è «una specie di stato di intorpidimento» che continuamente fa vacillare l’uomo con il pericolo di cadere.

    L’anca irrigidita viene così a rappresentare l’incostanza e la debolezza della virtù che l’uomo con tanto sforzo riesce a conquistare. Lo stesso tema viene approfondito in un passo del De mutatione, partendo in questo caso da un confronto fra due patriarchi, Abramo e Giacobbe.


    La virtù conquistata con l’insegnamento differisce dalla virtù conquistata con l’esercizio. [...] per questo motivo, ad Abramo, destinato a rimanere sempre nella stessa condizione, è Dio, l’Immutabile, a cambiare il nome, perché la stabilità del suo futuro riceva salde fondamenta da Colui che è inamovibile e sempre uguale a se stesso; a cambiare il nome a Giacobbe, invece, è un angelo, ministro di Dio, il Logos, perché egli riconosca che niente di quanto viene dopo Dio può dare origine a una fermezza salda e incrollabile...32

    L’argomentazione in questo brano richiama la dialettica fra Abramo e Giacobbe già accennata in precedenza. In questo caso Filone vuole dimostrare non la derivazione dell’ascesi etico-religiosa da un previo apprendimento della legge morale secondo gli insegnamenti di Dio, ma il fatto che lo stato della virtù conquistata con l’esercizio e l’impegno spossante è meno stabile di uno stato virtuoso raggiunto con l’apprendimento.

    L’argomentazione trae origine anche in questo caso dal cambiamento del nome; infatti ad Abramo è stato cambiato il nome da Dio stesso: «Non ti chiamerai più Abram ma ti chiamerai Abraham» (Gen 17, 5). Da questo momento in poi sarà sempre chiamato con il nome nuovo donatogli dal Signore insieme con la promessa dell’alleanza eterna. Giacobbe, invece, anche dopo il cambiamento del nome, non è chiamato sempre Israele, ma spesso ancora con il suo vecchio nome. Questa nuova identità non definitiva è legata secondo Filone al fatto che un angelo ha dato il nome di Israele a Giacobbe, non Dio stesso. Dalla stabilità del nome, viene poi dedotta la stabilità dello stato virtuoso raggiunto con le modalità individuate dai due personaggi.


    Colui che è stato reso migliore con l’insegnamento, perché provvisto di una natura felice che gli consente di vincere la dimenticanza con l’aiuto della memoria, gode di stabilità, in quanto



    31 FILONE, De Mutatione, 187, 371.

    32 FILONE, De Mutatione, 83; 87, 336-337.


    27

    mantiene saldamente ciò che ha appreso e vi si tiene avvinto con costante tenacia. L’uomo che si esercita, invece, a tratti prende fiato e si rilassa, cercando di riconquistare le forze logorate dalla fatica. [...] Inoltre, colui che ha ricevuto l’insegnamento da un Suggeritore immortale conserva dentro di sé, per sempre, il bene che ne deriva e non cambia mai. L’uomo che si esercita, invece, e che dispone soltanto della propria volontà da esercitare e da chiamare in causa per aiutarlo a superare la passione innata in ogni essere creato, anche ammesso che raggiunga la perfezione, può ritornare per stanchezza alla propria natura primitiva33

    L'argomentazione prosegue sulla linea della stabilità della virtù: colui che ha appreso dall'insegnamento di un «Suggeritore immortale» i segreti della sapienza e della vita virtuosa, gode di una maggiore stabilità interiore, di una maggiore costanza; d'altra parte colui che con la fatica dell'esercizio raggiunge lo stato di perfezione, sarà sempre in balia del suo limite naturale, allorché, sopraggiunta la stanchezza, egli sarà costretto a mollare la presa ricadendo nel suo stato di natura primitiva. Il primo fa affidamento sulla memoria del dono ricevuto dal suo maestro, il secondo può contare solo sulla propria volontà che, sebbene ben esercitata, resta debole e incostante.

    Filone, quindi, non pone al centro della realizzazione dell’uomo la sua forza di volontà e la sua abilità nel ricercare la sapienza con la pratica ascetica; l’uomo è fatto per la contemplazione dell’Essere, ma questa sapienza si radica su una predisposizione naturale, su una «natura felice» della creatura rivolta all'ascolto del Creatore. Solo dopo si collocano l’esercizio e l'ascesi, che coinvolgono la volontà umana e il suo impegno faticoso nella ricerca etico-religiosa della verità. Questa verità è però comunicata da Dio stesso all’uomo: in principio sta un’azione divina di autocomunicazione che per destinatario e fine l’uomo e la sua realizzazione, poi segue l'impegno umano a diventare accogliente del messaggio di Dio, attraverso una faticosa pratica della virtù. La contemplazione mistica è sostanzialmente un dono divino, non il frutto di uno sforzo volontario dell’uomo, che giunge sempre a esiti limitati e contingenti. La stabilità della virtù e la piena realizzazione dell’uomo sono nelle mani di YHWH che dispone i suoi doni di sapienza secondo la sua volontà, ma anche considerando l’impegno che viene messo nell’adesione libera alla sua promessa di alleanza. È possibile dire che ogni sforzo umano, pur necessario, non è mai sufficiente per la piena realizzazione dell’uomo; solo la grazia può operare quella mutazione, la con-formazione dell’uomo secondo l’immagine che Dio gli ha dato.

    Il nome cambiato da una creatura angelica e l’anca zoppicante indicano che la possibilità di contemplare Dio è un dono soprannaturale che non cancella il limite umano, anzi si colloca dentro la permanente inadeguatezza della creatura di stare al cospetto del Creatore (cfr Ei=doj qeou/). Giacobbe, in questa lettura esegetica di Filone, incontra solo una creatura angelica, che gli manifesta però il mistero divino; ma al contempo gli mostra appieno il suo limite creaturale di fronte all'Altissimo lasciandolo zoppicante.




    33 FILONE, De Mutatione, 84-85, 336-337.


    28


    Per chiarire meglio il nodo esegetico dell’anca irrigidita a seguito della lotta, occorre riprendere la riflessione sulla vittoria conseguita da Giacobbe e sul premio ricevuto. Si è detto che Filone sostiene la vittoria finale del patriarca, ma non manca di puntualizzare la stranezza di questa situazione. Giacobbe è colpito pesantemente e riporta i segni dello scontro; l’uomo sconosciuto si manifesta il più forte, dapprima nella lotta, poi donando all’avversario la sua benedizione segno dell’azione divina; Giacobbe ad un tratto lo trattiene con fermezza e gli chiede il nome, ma l’altro non risponde e se ne va. Giacobbe appare un vincitore vinto.


    Allora gli pone anche sul capo la corona della vittoria. Questa corona, tuttavia, ha un nome singolare, insolito, che forse suona infausto, perché il presidente dei giuochi lo chiama “irrigidimento”. È detto infatti: «la sua anca si irrigidì» (Gen 32, 26), il premio più stravagante fra quanti siano mai stati assegnati e proclamati per onorare un vincitore. Perché se l’anima che sia entrata in possesso di una forza irresistibile, che abbia conseguito il primato nelle gare di virtù, che sia giunta al limite estremo del bene, non si lascia esaltare dall’orgoglio e non cammina a testa alta con vanteria, convinta di poter avanzare a grandi passi con perfetto equilibrio, ma invece rimane irrigidita per aver subito una riduzione dell’arto piatto, dilatato dalla presunzione, e poi, per dir di più, si storpia volontariamente e zoppica (Gen 32, 32), per rimanere indietro rispetto alle nature incorporee; allora la sua apparente disfatta si risolve in vittoria34.

    In questo passo del De somniis è possibile cogliere una nuova caratteristica della «corona del trionfo» che Giacobbe riceve come premio. Non si tratta solo del nome nuovo o della benedizione ricevuta; il segno della vittoria di Giacobbe sta proprio nella sua sconfitta, nella gamba rattrappita per il colpo subito: la corona della vittoria è l’«irrigidimento». L’asceta ha compiuto tutti gli esercizi possibili, si è applicato nel migliore dei modi e ha raggiunto il vertice della formazione spirituale, una «forza irresistibile», è giunto al «limite estremo del bene» potendo contemplare l’Essere divino. Ma qui egli deve riconoscere la grazia che lo ha condotto al conseguimento di un così alto obiettivo, deve evitare di gonfiarsi nell’orgoglio pensando di poter stare stabilmente in possesso della virtù. L’anca irrigidita è simbolo dell’umiltà che il vero discepolo di YHWH ha di fronte alla manifestazione della sua Gloria, è l’attestazione dell’opera di Dio nell’uomo elevato alla stessa statura degli angeli che stanno al suo cospetto. In questa linea è da notare il gioco di parole con cui l’alessandrino sostiene la sua argomentazione; «la riduzione dell’arto piatto» è una formula che fa riferimento al colpo subito all’anca. Nella traduzione non si nota il doppio significato di pla,toj che significa ‘superficie piana o piatta’ o ‘larghezza’; in base a ciò si può comprendere l’immagine del dilatare e del ridurre che fanno riferimento alla larghezza: la presunzione si è dilatata, ma la prova a cui è stata sottoposta l’ha costretta a ridursi a vantaggio di un atteggiamento umile. «La sconfitta subita da Dio equivale a una vittoria su se stesso per colui che non insuperbisce per aver raggiunto la perfezione morale che è stato Dio a dargli, ma anzi accetta l’esortazione a umiliarsi





    34 FILONE, De Somniis, I, 130-131, 473-474.

    29


    (irrigidimento dell’anca) e per di più accentua l’umiliazione, riconoscendo la propria inadeguatezza a misurarsi con il potere incommensurabile di Dio»35.

    Infine l’insistenza sulla virtù dell’umiltà come somma virtù che non può mancare al vero asceta viene rimarcata con un riferimento al rischio di cadere in superbia, e quindi di diventare imitatore non della virtù che insegue con alacre sforzo ma delle passioni contro le quali si batte.


    ...a colui che per natura è combattente e che non è mai stato schiavo delle passioni, ma sempre ha ingaggiato lotte con ciascuna di esse, non è permesso di combattere fino in fondo, affinché non capiti che, col ripetersi sempre del medesimo scontro, contragga l’impronta della sorte nefasta che viene da quelle: molti, infatti, sono divenuti imitatori del male che prima combattevano, come, all’opposto, altri si sono fatti imitatori della virtù36.

    Filone adduce in questo passo del De migrazione una argomentazione in opposizione con quanto ha detto nel De mutatione (cfr FILONE, De Mutatione, 81); a Giacobbe «non è permesso di combattere fino in fondo», perché sia preservato dal rischio della sorte nefasta che viene dalle passioni: anche l’uomo più preparato e accorto può diventare imitatore del male contro cui si era accanito tanto vigorosamente. Il combattente che vuole giungere all’imitazione della virtù non deve limitarsi a ingaggiare lotte con ciascuna passione, ma deve assumere su di sé gli atteggiamenti virtuosi, primo fra tutti quello dell’umiltà davanti a Dio e agli uomini.

    A conclusione, l'anca irrigidita ha per Filone un duplice significato: da un lato richiama la limitatezza creaturale dell'uomo che non può mai avere una virtù perfetta e stabile; d'altra parte essa rappresenta il conseguimento del giusto atteggiamento nei confronti di Dio, cioè l'umiltà. Solo con questa disposizione interiore l'asceta, in cammino verso la pienezza della vita, può raggiungere lo stato di perfezione nella virtù accogliendo il dono della Visione, una reale manifestazione di YHWH che tuttavia non toglie completamente il velo che preserva l'uomo dalla Santità tremenda e misteriosa dell'Altissimo.























    35 Cf. nota 93 a FILONE, De somniis I, 131, 474.

    36 FILONE, De Migratione, 26, 365-366.


    30


    7 Il commento cristiano di Giustino

    Giustino è originario di Flavia Neapolis, l’antica città di Sichem, corrispondente all’odierna Nablus nella regione di Samaria. le vicende della sua vita ci sono note attraverso la narrazione che ne fa lui stesso nel Dialogo e attraverso varie fonti antiche; con una certa precisione è possibile datare il suo martirio nel 165, quando era imperatore Marco Aurelio e prefetto Giunio Rustico.

    Della sua biografia, ciò che particolarmente interessa è la sua solida formazione intellettuale ricevuta nelle scuole filosofiche più in voga all’epoca: egli giunge in età adulta al cristianesimo, dopo aver cercato la verità fra gli insegnamenti degli stoici, dei peripatetici e dei pitagorici; la tradizione vuole che il suo primo approccio siano stati il libri profetici, a cui è seguito una sua personale elaborazione della fede attraverso le dottrine medio-platoniche. A questo punto, egli decide che, nel proliferare di scuole filosofiche pagane, è necessario creare un luogo in cui anche la dottrina cristiana possa essere insegnata e diffusa, attraverso un sapiente confronto con la filosofia; trasferitosi a Roma, maggiore centro culturale dell’epoca, fonda una scuola filosofica cristiana.

    A lui sono attribuite tre opere di carattere apologetico composte fra il 150 e il 160: le due Apologie e il Dialogo con il giudeo Trifone. Mentre le due apologie sono rivolte ai pagani, il Dialogo, come si evince dal titolo, è un confronto con il giudaismo, strutturato sul modello dei dialoghi platonici: Giustino narra un colloquio durato due giorni con Trifone e alla presenza di altri giudei.

    Per l’interpretazione della figura di Giacobbe è possibile far riferimento solo a Dialogo, laddove Giustino propone un interpretazione cristologica di molti passi delle Scritture ebraiche e delle figure della storia del popolo di Israele. Infatti il Dialogo è composto da tre parti principali precedute da una introduzione autobiografica in cui Giustino rende nota la sua ampia formazione culturale: nella prima parte (9-47) tenta di dimostrare un rapporto di continuità e compimento fra le Scritture ebraiche e l’insegnamento cristiano, nella seconda (48-108) vuole giustificare il culto di Cristo come Dio e nella terza (109-142) descrive il nuovo popolo di Dio composto non più dal popolo dell’antica alleanza ma da tutti coloro che credono nel Dio di Gesù Cristo37.

















    37 Cf. DROBNER, 131-136.


    31


    7.1 Interpretazione cristologica

    Nella prima parte del Dialogo, Giustino, nel confronto con i giudei, intende sottolineare il rapporto di continuità e compimento fra le Scritture ebraiche e la nuova dottrina cristiana. L’aspetto più rilevante di questo processo è l’interpretazione cristologica di tutte le manifestazioni di Dio veterotestamentarie; cioè le teofanie sono in realtà cristofanie, manifestazioni del Figlio e non del Padre stesso. Giustino riporta una serie numerosa di loci biblici interpretati come apparizioni del Verbo, fra cui appare anche l’episodio della lotta di Giacobbe.

    Giustino, secondo lo stile del dialogo, svolge un'argomentazione piuttosto sintetica, accostando in rapida successione vari episodi delle Scritture, ben sapendo che il suo uditorio è preparato sull’argomento; egli si limita quindi a dare una nuova chiave di lettura dei brani, facendo emergere fra le pieghe del testo i riferimenti al Verbo. Nel suo argomentare, più rabbinico che filosofico, sostiene la tesi cristologica accostando un florilegio interminabile di testi biblici, alcuni con brevissimi accenni, altri riportati in modo più ampio. Come dice egli stesso:


    “Intendo riportarvi passi della Scrittura e non darmi tanta pena di allestire un costrutto che si regge sul puro artificio retorico. Non ne ho infatti la capacità, ma mi è stata concessa da Dio una grazia che sola mi fa comprendere le sue Scritture”38.

    Introducendo il discorso sul patriarca Giacobbe:


    “Sempre Mosè, fratelli, ha scritto che questi che è apparso ai patriarchi come Dio è chiamato anche angelo e Signore, affinché anche da ciò poteste riconoscere che egli è servitore del Padre in tutte le cose, come già avete convenuto, e grazie all’abbondanza di attestazioni foste confermati nella vostra convinzione”39.

    Dopo aver esposto il brano della lotta di Giacobbe, egli rapidamente introduce il racconto del sogno, dando l’interpretazione cristologica del misterioso avversario:


    “Poiché reputo necessario riferirvi anche le parole che narrano come sia apparso a Giacobbe, che fuggiva il fratello Esaù, questo angelo e Dio e Signore, apparso ad Abramo in forma d’uomo e che in forma d’uomo ha lottato con lo stesso Giacobbe, ve lo citerò”40.

    Per comprendere l’argomento, possiamo far riferimento ad un passo della terza parte del Dialogo, in cui Giustino ricapitola sommariamente il discorso sulla storia di Israele.


    “E ancora, così dice: Con Giacobbe lottava un uomo, e afferma che era un Dio, perché dice che
    Giacobbe dichiarò: Ho visto Dio faccia a faccia e la mia anima è stata salvata, ed ha scritto




    38 GIUSTINO, Dialogo con giudeo Trifone, 58, 1, trad. e note di G. VISONÀ, Edizioni Paoline, Milano 1988, 210-211.

    39 GIUSTINO, Dialogo con giudeo Trifone, 58, 3, 211-212.

    40 GIUSTINO, Dialogo con giudeo Trifone, 58, 10, 213.


    32

    anche che il luogo in cui lotto con lui e in cui egli apparve e lo benedisse lo chiamò Visione di Dio”41.

    In ultima analisi emerge da questa carrellata di testi come Giustino tenti di inserire il cristianesimo nell’ampio alveo della tradizione giudaica trasmessa dalle Scritture, ma allo stesso tempo, invocando la grazia che gli è stata concessa da Dio come unico mezzo per comprendere bene le Scritture, vuole annunciare il nuovo che viene dall'avere conosciuto Cristo; perciò non basta l’argomentare filosofico, ma occorre il dono di Dio, che fa compiere al credente quel passo in più nella conoscenza di Lui attraverso il Figlio inviato a compiere il suo disegno di salvezza.

    7.2 Il nome «Israele»


    “Il nome «Israele», dunque, significa questo: «Uomo che vince con potenza». Infatti «isra» vuol dire «uomo che vince», «el» invece «potenza». È quanto attraverso il mistero della lotta sostenuta da Giacobbe con colui che gli era apparso quale servitore della volontà del Padre – e che era Dio in quanto primogenito di tutte le creature – era stato profetizzato che avrebbe fatto il Cristo una volta divenuto uomo. Quando infatti si fece uomo, come ho gia detto prima, gli si avvicinò il diavolo, cioè quella potenza chiamata anche serpente e satana, per tentarlo e per cercare di abbatterlo pretendendo di farsi adorare. Ma quegli lo annientò e lo abbatté, smascherando la sua perversità, poiché pretendeva di farsi adorare come un Dio in spregio alle Scritture, essendo divenuto apostata della volontà di Dio”42.

    Anche per ciò che concerne l'etimologia del nome Israele, Giustino accoglie la tradizione biblica, ma vi aggiunge del proprio. Israele è “l'uomo che vince con potenza”; per Giustino il nome si può ricondurre alla composizione fra la radice ebraica Srh, che significa prevalere, vincere, e il termine el, interpretato genericamente come potenza o forza, non come elemento teoforo secondo la tradizione. In questo modo Giacobbe può essere assunto come profezia del Cristo che combatte e vince con potenza divina il satana, la potenza del male che si oppone alla volontà di Dio. Nel nome Israele, Giustino trova un appiglio per la sua interpretazione cristologica delle Scritture. Non solo Giacobbe è colui che ha incontrato Dio nel suo manifestarsi attraverso il Figlio, ma è anche figura profetica del Cristo che intraprende una dura lotta contro le potenze del male e ne esce vincitore.

    7.3 Giacobbe: preannuncio della Croce

    In questa linea, l'esegesi di Giustino compie un meraviglioso passo in avanti rispetto alla tradizione biblica, che già aveva elaborato l'episodio della lotta come una manifestazione divina del Logos, anche se, ovviamente, non nei termini di una apparizione del Verbo incarnato. Egli, elaborando in chiave cristologica l'episodio, giunge a cogliere in Giacobbe una figura profetica del Crocifisso.



    41 GIUSTINO, Dialogo con giudeo Trifone, 126, 3, 356.

    42 GIUSTINO, Dialogo con giudeo Trifone, 125, 3-4, 353-354.


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    “Poiché inoltre il nostro Cristo doveva «intorpidirsi», cioè cadere nel travaglio e nella percezione della passione quando stava per essere crocifisso, anche in questo diede un preannuncio quando toccò la coscia di Giacobbe e fece sì che intorpidisse. Israele era il nome che aveva fin da principio e lo stesso nome egli impose al beato Giacobbe quando lo benedisse, annunciando anche in questo modo che tutti coloro che per mezzo suo trovano rifugio nel Padre sono l’Israele benedetto. Voi, invece, che di queste cose non avete capito niente né siete tuttora preparati a capire, vi aspettate, quali figli di Giacobbe per discendenza carnale, di venire senza meno salvati. Ma che anche in questo vi inganniate è stato da me ampiamente dimostrato”43.

    Il colpo subito all'anca, fa sì che Giacobbe ritorni zoppicante alla sua famiglia; egli pur avendo vinto la lotta contro il suo avversario, riporta una grave ferita, un segno doloroso che diventa, nell'interpretazione di Giustino, un annuncio della passione che avrebbe subito il Cristo prima di mostrarsi colui che vince con potenza il male. Gesù passerà attraverso la Croce e vincerà la morte, così come Giacobbe-Israele, subendo nella lotta il duro colpo alla gamba, ha ottenuto la benedizione dal suo insigne avversario.





























    43 GIUSTINO, Dialogo con giudeo Trifone, 125, 5, 355.


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    8 Il commento cristiano di Clemente di Alessandria

    Clemente nasce tra il 140 e 150; trascorse la maggior parte della sua vita ad Alessandria, dove ricevette una copiosa formazione filosofica, prima di convertirsi al cristianesimo e fondare sul modello di Giustino, una scuola filosofica cristiana. Nel suo insegnamento presentava il cristianesimo attraverso le categorie filosofiche stoiche e platoniche, promuovendo l’inculturazione del cristianesimo, attraverso l’assunzione di un vocabolario e schemi di pensiero usati in ambito filosofico e il confronto con le correnti di pensiero dominanti dell’epoca. Dopo la persecuzione di Settimio Severo si trasferisce a Gerusalemme dove morirà attorno al 215.

    Di Clemente ci sono giunte tre opere: il Protrettico, il Pedagogo, e gli Stromata; da alcuni considerati una trilogia sull’educazione cristiana, a partire dal primo annuncio, passando per la descrizione del ruolo dell’educatore giungendo infine ad una esposizione completa della dottrina cristiana. Ma la maggioranza degli studiosi sostiene una certa indipendenza delle tre opere44.

    La figura di Giacobbe viene presa in considerazione sia negli Stromata che nel Pedagogo.

    8.1 Stromata: una riflessione sui nomi

    Clemente negli Stromata ha l'intenzione di sviluppare i contenuti della fede cristiana da un punto di vista filosofico. Non ha pretesa di sistematicità, ma raccoglie una serie di pensieri slegati, che probabilmente doveva fungere da canovaccio per un trattato più ampio e organico.

    Nella prima parte egli tratta il processo per raggiungere la vera gnosi, intessendo il discorso filosofico con una fitta trama di citazioni bibliche interpretate in chiave allegorica. Sia nel metodo che nelle argomentazioni, Clemente si dimostra debitore di un pensiero biblico di lingua greca a lui precedente, rappresentato in maniera insigne dalle opere di Filone.

    Infatti, per ciò che concerne l'etimologia dei nomi Giacobbe e Israele, Clemente resta legato alla tradizione.


    Giacobbe invece, a quanto si narra, aveva rapporti con più donne: lo si interpreta come “colui che si esercita” (ed esercizio si ha solo per esperienza di più dottrine, e diverse). Onde egli ha anche l'altro nome di Israele, cioè “colui che è veramente capace di distinguere”, in quanto di molta esperienza e capace di esercitarsi. Pure un'altra nozione potrebbe venire in luce dalla triade dei progenitori: e cioè che il sigillo della “gnosi” è sovrano, perché essa consta di natura, apprendimento e esercizio45.

    Anche l'accostamento dei tre patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe alle tre tappe del cammino gnostico, mutuate dal pensiero filosofico, è un tratto comune con Filone46. Abramo rappresenta chi con apprendimento giunge alla sapienza, Isacco è colui che per natura è orientato ad essa, infine Giacobbe è colui che si esercita per giungere ad essa. La triade natura,


    44 Cf. DROBNER, 197-202.

    45 CLEMENTE DI ALESSANDRIA, Stromata, I, 5, 31, 4-5, trad. e note di G. PINI, Paoline, Milano 2006, 44-45.

    46 Cf. FILONE, De somniis, I, 166-172, 484-486.


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    apprendimento, esercizio descrivono fin dall'antico pensiero sofistico la modalità umana di approdare alla vita virtuosa del sapiente, fondato sulla vera gnosi.

    8.2 Il Pedagogo divino

    Nel Pedagogo Clemente si rivolge ai cristiani proponendo un modello di vita che si fonda sulla vera gnosi, la conoscenza di Dio Padre e del suo disegno di salvezza per tutti gli uomini. Ma a questa nuova vita occorre essere introdotti da un maestro speciale, che conosca la volontà di Dio, che abbia visione di Dio. Questo Pedagogo è Gesù Cristo, Verbo del Padre. Noi siamo come bambini affidati dal Padre alle sue premurose cure, affinché il Figlio introduca alla vera conoscenza, allo stato di uomo perfetto secondo la Sua immagine divina impressa in noi fin dalla creazione; alla sequela del nostro Pedagogo possiamo vivere da figli di Dio.


    Abbiamo dimostrato che noi tutti siamo chiamati dalla Scrittura fanciulli e, inoltre, che quanti ci siamo messi alla sequela di Cristo veniamo allegoricamente designati come bambini, poiché uno solo è perfetto, il Padre di tutti: “in lui è il Figlio e il Figlio è nel Padre”. Ora proseguendo nell'ordine della nostra esposizione, dobbiamo spiegare chi sia il nostro Pedagogo. Egli si chiama Gesù47.

    Clemente, a dimostrazione della sua tesi, porta una serie di episodi biblici in cui si è fatto presente il Pedagogo per guidare il suo popolo. In questo contesto egli fa riferimento all'episodio della lotta di Giacobbe contro l'uomo misterioso: se Giacobbe è colui che si esercita, colui che si allena per vincere, allora è possibile vedere nel suo avversario non un nemico, ma un allenatore, un maestro. Questi è dunque il Pedagogo Cristo, che prepara Giacobbe alla vera lotta, quella contro le potenze del male: questa esperienza è per il patriarca il punto di svolta nella sua preparazione di atleta, finalmente può conoscere faccia a faccia il suo Pedagogo, che per tutta la vita lo ha guidato sulla via della terra promessa, per compiere il suo volere.


    Egli fu Pedagogo anche di Giacobbe e ciò risulta chiaramente; gli dice infatti: “Ecco, io sono con te, ti custodisco in ogni sentiero su cui camminerai. Ti condurrò in questa terra e non ti lascerò finché non avrò fatto quel che ti ho detto”. Sta scritto, poi, che lottò con lui: “Giacobbe fu lasciato solo e un uomo lottò con lui – era il Pedagogo – fino al mattino”. Costui era l'uomo che lo guidava e lo conduceva, era l'uomo che insieme a lui si allenava, e preparava alla lotta contro il male l'atleta Giacobbe. Ora, giacché il Logos era allo stesso tempo l'allenatore di Giacobbe e il Pedagogo dell'umanità, “quegli – dice – lo interrogò e gli disse: «Rivelami il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi chiedi il mio nome?»”. Teneva infatti in serbo il suo nome nuovo per il popolo novello, il popolo bambino. A quei tempi il Signore Dio era ancora senza nome, non essendo ancora diventato uomo. Tuttavia “Giacobbe diede a quel luogo un nome e lo chiamò: «Visione di Dio», poiché – diceva - «ho visto Dio nel volto e la mia anima è salva». Il volto di Dio è il Logos per mezzo del quale Dio è messo in luce ed è conosciuto. Fu allora, inoltre, che a [Giacobbe] venne dato il nome di Israele, allorché vide il Signore Dio. Questi è Dio, il Logos, il Pedagogo, che più tardi disse: “Non aver paura di scendere in Egitto”. Vedi




    47 CLEMENTE DI ALESSANDRIA, Pedagogo, 53, 1, trad. a cura di D. TESSORE, Città Nuova, Roma 2005, 84.


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    come il Pedagogo va dietro all'uomo giusto, come allena alla lotta l'atleta, insegnandogli a colpire di sorpresa l'avversario48.

    A questo punto Clemente approfondisce la sua argomentazione: l'allenatore di Giacobbe è anche il Pedagogo di tutta l'umanità, il Logos stesso. A sostegno di ciò porta tre argomenti testuali: la richiesta dell'identità dell'uomo sconosciuto, il nuovo nome donato a Giacobbe e l'assegnazione del nome Penuel al luogo dove è avvenuta la lotta. In primo luogo Clemente sostiene che l'allenatore, il Logos, non aveva ancora un nome perché non si era ancora incarnato. Inoltre il fatto che Giacobbe denomini quel luogo “Visione di Dio”, significa appunto che ha riconosciuto in quell'essere la manifestazione di Dio stesso; e l'unico rivelatore del Dio Altissimo è il suo Verbo: “il volto di Dio è il Logos” - dice Clemente. Infine anche il nome nuovo Israele che il Pedagogo assegna a Giacobbe è un segno rivelatore della sua identità: il patriarca ha visto il Signore Dio, nella persona del Logos-Pedagogo.

    Il punto focale di questa argomentazione sta quindi nella coscienza che il Logos è la manifestazione di Dio, è la sua autocomunicazione all'uomo, è la sua Parola offerta al “popolo bambino” perché cresca nella conoscenza del Padre.

    Il Pedagogo è sempre all'opera nelle vicende del popolo eletto, dalle origini in Abramo e nei patriarchi, fino alle vicende dell'esodo, con il grande Mosè, chiamato ad essere lui stesso guida del suo popolo secondo la pedagogia divina.


    Anche a Mosè egli insegna a fare il pedagogo; dice infatti il Signore:”Se qualcuno ha peccato contro di me io lo cancello dal mio libro. Ora va' e conduci questo popolo al luogo che ti ho indicato”. Qui egli insegna la pedagogia. Tramite Mosè, infatti, il Signore fu davvero il Pedagogo del popolo antico, ma personalmente è la guida del popolo nuovo, faccia a faccia49.

    Quindi, non solo il Pedagogo giuda il suo popolo direttamente ma lo affida a persone elette insegnando loro la sua pedagogia; ci mostra come si prende cura dell'umanità attraverso le figure concrete dei suoi ministri. Clemente proseguirà la sua riflessione su Dio educatore approfondendo la figura di Mosè.

    In conclusione possiamo vedere che Clemente si colloca nel solco della tradizione biblica greca, esplicitando nel brano il ruolo educativo di Dio che vuole condurre l'uomo alla vera sapienza. Nella tradizione biblica i maestri del popolo sono gli uomini di Dio che nel corso della storia hanno ricevuto il dono della conoscenza della volontà divina: i profeti e i re sono le guide per eccellenza. Ma a poco a poco emerge nella coscienza israelitica che l'unica guida del popolo è la parola di Dio, pronunciata dai profeti, raccolta e meditata dai sapienti. La filosofia ellenistica, d'altra parte, accostava a questo ruolo di mediazione fra Dio e l'uomo il Logos, la potenza divina operante concretamente nella storia degli uomini. In questo contesto si inserisce l'elaborazione di Filone sui


    48 CLEMENTE DI ALESSANDRIA, Pedagogo, 56, 4-57, 3, 87-88.

    49 CLEMENTE DI ALESSANDRIA, Pedagogo, 57, 4-58, 1, 88.


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    due maestri di vita: Dio padre e gli uomini saggi che guidano alla vera sapienza attraverso lo studio della Torah e l'esercizio della filosofia50.

    Per Clemente l'unico in grado di attuare una pedagogia che conduca alla gnosi divina è il Logos, vero Pedagogo dell'umanità che, ponendosi alla sua sequela, vuole compiere il difficile cammino educativo che porta ad uscire dalla propria terra per entrare in quella promessa, cioè ad uscire da sé per incontrare un Altro che può darci piena manifestazione della nostra identità al cospetto di Dio. Il novum cristiano permette di identificare questa realtà filosofica del Logos mediatore fra la realtà divina e quella umana, con Gesù Cristo, il Verbo incarnato.





























    50 Cf. FILONE, De ebrietate, 80-84, 241-242.


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    9 Conclusione

    Il percorso effettuato ha fatto emergere un salda continuità fra l'interpretazione cristiana dei primi secoli e quella di matrice giudaica. L'incontro della tradizione biblica con la filosofia greca ha prodotto una nuova fecondità nella comprensione del testo, con l'introduzione della categoria della Sapienza mediatrice fra Dio e il mondo: nel libro della Sapienza, infatti, c'è una rilettura della storia del popolo di Israele a partire dal ruolo che in essa assume la Sapienza. Altre categorie filosofiche vengono accolte come chiavi di interpretazione delle Scritture, ponendo le basi per un'elaborazione teologica più approfondita. Filone è una pietra miliare dell'esegesi allegorica del testo biblico: gli autori cristiani successivi non possono prescindere dalla sua opera, anzi accolgono ampiamente le sue intuizioni; il salto compiuto dai padri è nella lettura cristologica delle Scritture: il Cristo è per loro il protagonista indiscusso di tutte le narrazioni bibliche. Dal punto di vista strettamente esegetico, nell'ambito cronologico preso in esame, va affermata con sicurezza la fecondità e l'originalità dell'opera di Filone, che ha lasciato delle intuizioni eccezionali. Giustino e Clemente, immersi nello stesso ambiente culturale, hanno gioco facile ad accogliere dalla sua opera alcuni spunti fondamentali per rielaborarli secondo la fede cristiana; essi su queste basi possono produrre alcune nuove chiavi di lettura strettamente cristologiche.

    Possiamo concretamente individuare qualche linea di continuità nell'interpretazione dell'episodio della lotta di Giacobbe.

    In primo luogo l'identità dell'uomo misterioso è da subito accostata ad una certa manifestazione di Dio; questo è un dato assunto in tutta la tradizione biblica. Un diverso approccio culturale ha permesso al giudaismo di lingua greca di vedervi una manifestazione di quella Sapienza, che stando al cospetto di Dio, dispone e regola tutta la realtà secondo il suo benevolo disegno. Anche Filone, associando l'uomo a una apparizione del Logos divino, si innesta su questo solco, che sfocerà nell'identificazione nella visione cristiana, che vede in quell'uomo il Verbo che si sarebbe poi incarnato.

    A sostegno di questa manifestazione del trascendente si portano sempre tre argomenti: il nuovo nome Israele dato a Giacobbe, la benedizione e il nome Penuel assegnato da Giacobbe al luogo in cui è avvenuta la lotta.

    Altra linea comune è l'aspetto pedagogico dell'azione divina: in questo episodio fin dall'antichità si vede Dio che insegna al suo eletto la via verso la pienezza della vita; in epoca successiva questa pienezza è stata ricompresa in termini di conoscenza della volontà di Dio, a cui solo l'uomo virtuoso può ambire. All'apice di questo filone esegetico si colloca Clemente Alessandrino, che identifica il Pedagogo divino con il Cristo.

    In quest'ottica si inserisce la riflessione sul cammino ascetico che accomuna sia Filone sia i padri Clemente e Giustino: Giacobbe è un uomo che si esercita nelle virtù allo scopo di giungere alla perfezione della sua esistenza nella conoscenza del Sommo Bene. Il discorso viene ampliato


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    con due precisazioni: solo Dio con il suo dono di grazia può consentire la Visione, cioè la conoscenza di Lui, la vera gnosi; perciò l'uomo deve mantenersi in un atteggiamento di umiltà di fronte a qualsiasi manifestazione della benevolenza divina, sempre cosciente che la virtù non è primariamente una conquista umana, ma un dono divino, affidato all'uomo perché giunga alla vita piena.

    La riflessione cristologica ha visto non solo nell'uomo sconosciuto una manifestazione del Cristo, ma anche nella figura di Giacobbe una figura profetica del Verbo Incarnato. A ciò segue la riflessione sull'identità del nuovo popolo di Dio formato non più dai figli di Giacobbe, ma dai credenti in Cristo. Sviluppo interessante di questo accostamento Giacobbe-Cristo è l'analisi di Giustino sulla profezia della Croce.





























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    Bibliografia

    Berešit Rabbà, trad. e note di A. Ravenna, a cura di T. FEDERICI, UTET, Torino 1978.

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    DROBNER H. R., Patrologia (Lehrbuch der Patrologie, Herder, Freisburg-Basel-Wien 1994), presentazione di A. DI BERARDINO, trad. dal ted. di P.S. NERI e F. SIRLETO, Piemme, Casale Monferrato (AL) 22002.

    FILONE, L’uomo e Dio. Il connubio con gli studi preliminari. La fuga e il ritrovamento. Il mutamento dei nomi. I sogni sono mandati da Dio, trad., note e apparati a cura di C. KRAUS REGGIANI, Rusconi, Milano 1986.

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    FILONE, La migrazione verso l’eterno. L’agricoltura. La piantagione di Noè. L’ebrietà. La sobrietà. La confusione delle lingue. La migrazione di Abramo, trad., note e apparati di R. RADICE, Rusconi, Milano 1988.

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    La Sacra Bibbia, (testo della traduzione in lingua italiana nella versione ufficiale a cura della Conferenza Episcopale Italiana), Libreria Editrice Vaticana, 2008. Note e commenti sono tratti da: La Bibbia di Gerusalemme, (testo biblico di La Sacra Bibbia della CEI, «editio princeps» 1971; note e commenti di La Bible de Jerusalem, 21984), Dehoniane, Bologna 141996.

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    SCHROER S., «Il libro della sapienza», in Introduzione all’antico testamento, a cura di E. ZENGER, ed. it. a cura di F. DALLA VECCHIA, Queriniana, Brescia 2005.



    41

    Septuaginta, edita da A. RAHLFS e R. HANHART, Stuttgart 22006.

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    Grande Lessico dell’Antico Testamento (Theologisches Wörterbuch zum Alten Testament, a cura di G.J. BOTTERWECK e H. RINGGREN, Stuttgart, vol. IV: 21984; vol. VI: 21989) a cura di P.G. BORBONE, Paideia, Brescia, vol. IV: 2004; vol. VI: 2006.

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    CITAZIONE (maredelnord @ 5/12/2019, 19:47) 
    Grazie a te, ma lascia che ti consigli la lettura delle lettere di Apocalisse, quelle indirizzate proprio agli angeli e in cui si legge, nella chiusa, "a chi vince" e questo significa che anche gli angeli piangono

    A me non pare che siano indirizzate agli "angeli", non trattarmi come un principiante.
    Se ipotizzo che nel testo della lotta di Giacobbe, Giacobbe non sia alle prese con un semplice uomo e per cio' che quel personaggio fa, non per un termine con cui viene indicato.
    Coerentemente con cio' neanche nell'Apocalisse sara' sufficente un singolo termine per farmi decidere sull'identita' del personaggio a cui viene attribuito.
    E nemmeno quando leggo dell'incontro di Abramo con i tre "uomini" il termine e' sufficente per stabilire l'identita' dei tre.

    Che sia l diluvio, che sia l'incontro di Abramo con i tre personaggi, che sia la lotta di Giacobbe, per me non sara' mai l'analisi di un termine solo a decidere per tutto il racconto.

    E' scritto che Hashem apparve ad Abramo (Gen 18) e quando Abramo alzo gli occhi vide tre uomini.
    Cosa ci fa capire questo?
    Che l'apparire di Dio ad Abramo e' percepito come presenza di tre uomini.
    E se Abramo riesce a dare da mangiare a tre uomini che in realta' sono Dio o manifestazione di Dio perche' Giacobbe non potrebbe lottare con un uomo che e' Dio o sua manifestazione? (non lo sto dicendo solo a te).
    Gli ospiti di Abramo, che poi diventeranno gli ospiti di Lot, si vede ancora meglio che per via di quello che dicono e fanno non possono essere semplici uomini.
    Eppure a inizio racconto sonochiamati uomini come il misterioso personaggio che lotta con Giacobbe. Come mai?
     
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