Cap. 2 - Le istanze narrative: narratore e lettore

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    1 La narrazione come atto comunicativo.

    a. Come ogni comunicazione, anche quella letteraria non può prescindere dagli atti comunicativi fissati da R. Jakobson e cosi riassumibili:


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    Il MITTENTE è colui/colei che dà origine all’atto comunicativo, cioè trasmette il messaggio.
    Il DESTINATARIO è colui/colei al quale l’atto comunicativo è destinato, cioè chi riceve il messaggio. L’atto di comunicazione, per essere tale, deve concludersi con la ricezione del messaggio da parte del destinatario, pena la nullità dello stesso. Ci sono alcuni casi particolari di rapporto emittente-destinatario:
    mittente e destinatario coincidono: in genere mittente e ricevente sono diversi, mentre coincidono quando l’io riflette, elabora, sogna, e quindi si rivolge a se stesso;
    il mittente diventa destinatario e il destinatario diventa mittente: questo continuo cambio di ruoli è caratteristico dei dialoghi.

    Il mittente si rivolge a più destinatari: è il caso di una conferenza o della stesura di un libro.
    Il MESSAGGIO è l’insieme delle informazioni inviate dal mittente al destinatario.
    Il CODICE è l’insieme di segni (e le regole per combinarli insieme) usati per comunicare. Per essere compreso, il messaggio deve essere formulato mediante un codice (verbale o non verbale che sia) conosciuto sia dal mittente sia dal destinatario. Formulare un messaggio in un codice è una operazione di codificazione; comprenderlo, ossia interpretarlo, è una operazione di decodificazione; trasportare un messaggio da un codice all’altro è una operazione di transcodificazione.
    Il CANALE è il mezzo fisico usato per la trasmissione del segno dal mittente al destinatario.
    Il CONTESTO è il quadro d’insieme delle informazioni e conoscenze (linguistiche, storiche, culturali e situazionali) che, essendo comuni sia al mittente sia al destinatario, consentono l’esatta comprensione del messaggio. Non basta la conoscenza del codice a garantire la comprensione del messaggio; il messaggio decodificato deve essere rapportato ad un insieme di informazioni possedute dal destinatario (comuni al mittente) e solo allora è possibile la comprensione.
    Più in generale la comprensione dei messaggi rinvia a tre diverse tipologie di contesti:
    il contesto situazionale è la situazione concreta in cui avviene la comunicazione;
    il contesto linguistico è l’insieme di informazioni fornite dagli altri elementi linguistici;
    il contesto culturale è l’insieme delle conoscenze di fatti, di persone, di idee, di oggetti cui la comunicazione si riferisce.
    b. Nella comunicazione letteraria, gli elementi presenti in una situazione comunicativa, descritti da Jakobson, si possono definire secondo il seguente schema:

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    L’autore (mittente) scrive un’opera (messaggio) rivolta ad un determinato pubblico (destinatario), utilizzando un insieme di risorse linguistiche e retoriche (codice), a seconda del genere letterario cui fa riferimento, e inserendosi in un determinato contesto culturale e in una certa tradizione letteraria. Rispetto alla comunicazione non letteraria, quella letteraria presenta delle peculiarità:
    -il pubblico-destinatario non può interpellare l’autore-mittente per chiedere spiegazioni in merito al senso del messaggio: può solo interrogare il testo;
    -il codice lingua usato dall’autore-mittente può essere poco chiaro al lettore e ciò può provocare difficoltà nella comprensione;
    -il contesto in cui l’opera è stata prodotta è quasi sempre diverso dal
    contesto di riferimento del lettore: ciò può ostacolare la comprensione.
    Come un messaggio linguistico cambia a seconda del codice e del
    contesto, così un’opera letteraria non può che essere condizionata dalla
    scelte dell’autore:


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    o dalle scelte interpretative del pubblico/lettore:

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    c. Sul terreno specifico della comunicazione narrativa, dal momento
    che la narrazione è la costruzione di un circuito comunicativo immaginario
    (fiction), si può operare una fondamentale distinzione tra gli elementi
    extratestuali (il mittente e il destinatario), che attengono alla realtà
    storica (history), e gli elementi intratestuali (il messaggio), che attengono
    alla realtà della finzione (story). Dei primi fanno parte l’autore
    reale e lettore reale; dei secondi, l’autore implicito e il lettore implicito,
    il narratore e (eventualmente) il narratario. S. Chatman propone questa
    sintesi:
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    Secondo Chatman, l’autore reale è il singolo (o il gruppo), storicamente
    esistito (anche in penuria o in totale mancanza di informazioni
    biografiche), che ha pensato, progettato e scritto il testo4. All’estremo
    opposto, e sempre al di fuori della finzione narrativa, vi è il lettore reale,
    cioè tutti coloro che, nel corso del tempo, leggono materialmente il
    testo. All’interno della finzione narrativa, l’autore implicito è
    l’immagine dell’autore consegnata all’opera, ossia l’idea dell’autore
    che il lettore desume dalle informazioni presenti nel testo. Come sottolinea
    Chatman, «l’autore viene detto “implicito” perché è ricostruito dal
    lettore per mezzo della narrazione. Non è il narratore, ma piuttosto il
    principio che ha inventato il narratore insieme a tutto il resto della narrazione,
    che ha sistemato le carte in un certo modo, ha fatto succedere
    queste cose a questi personaggi, in queste parole o in queste immagini
    »5. Il corrispettivo dell’autore implicito è il lettore implicito, cioè
    l’idea che l’autore reale si crea circa i potenziali lettori, o l’ipotetica tipologia
    di lettori, della sua opera, sulla base delle scelte stilistiche e/o
    contenutistiche da lui messe in atto. La coppia narratore – narratario è
    il corrispettivo funzionale (e finzionale) della coppia mittente – destinatario:
    mente il primo indica il responsabile ultimo dell’enunciato narrativo.
    il secondo indica (l’eventuale) destinatario del narratore.
    Una variante allo schema di Chatman viene presentata da A. Marchese:
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    Edited by Maurizio 1 - 23/1/2019, 21:00
     
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    2. La voce narrativa

    Il narratore è l’istanza cui compete la produzione del discorso narrativo: mentre l’autore reale scrive, il narratore narra; di conseguenza, non bisogna mai sovrapporre e confondere l’autore reale con il narratore; anche quando coincidono (come per esempio in un racconto autobiografico), rimangono sempre due istanze distinte.
    Sebbene spesso il narratore sia privo di volto, cioè non abbia un’identità precisa, e a volte sembri invisibile, la voce che si sente è sempre la sua. Creatura dell’autore, il narratore è dotato di straordinari poteri, in quanto è lui a porsi come responsabile ultimo della narrazione. Egli possiede un vero e proprio statuto che si esplica:
    - nel suo rapporto con la storia narrata - nella sua presenza nella storia - nel suo grado di conoscenza.

    2.1 I livelli narrativi e il rapporto con la storia
    È stato G. Genette, in particolare, a fornire le riflessioni più stimolanti sulla voce narrativa.
    Egli supera anzitutto la tradizionale distinzione tra racconto in prima persona e racconto in terza persona, sostenendo che queste espressioni «sono effettivamente inadeguate in quanto mettono l’accento della variazione sull’elemento in realtà invariante della situazione narrativa, cioè la presenza, implicita o esplicita, della “persona” del narratore, il quale, all’interno del suo racconto, può esistere solo (come qualunque soggetto dell’enunciazione in un enunciato) in “prima persona” […] La scelta del romanziere non si verifica tra due forme grammaticali, ma tra due atteggiamenti narrativi (le forme grammaticali ne sono quindi la meccanica conseguenza): far raccontare la storia da uno dei “personaggi” o da un narratore estraneo alla storia stessa». Non si tratta quindi di distinguere tra narrazione in prima persona e narrazione in terza persona, ma di distinguere tra la decisione dello scrittore di far raccontare la storia da uno dei personaggi o da un narratore estraneo alla storia stessa.
    All’interno di un racconto, dice Genette, esistono diversi livelli narrativi. La differenza di livello consiste nel fatto che «ogni avvenimento raccontato da un racconto si trova a un livello diegetico immediatamente superiore a quello dove si situa l’atto narrativo produttore di tale racconto». In sostanza, dal momento che i fatti si svolgono sempre prima della loro narrazione, quando un narratore di I grado (diegetico) fa parlare un altro narratore, quest’ultimo diventa un narratore di II grado (metadiegetico). Di conseguenza, viene definito:
    extradiegetico, cioè esterno alla storia narrata (o diegesi), il narratore di I grado (per esempio, Omero nell’Odissea);
    intradiegetico, cioè interno alla diegesi, un narratore di II grado che racconta i fatti all’interno di fatti narrati da un altro narratore (per esempio, Ulisse di fronte ai Feaci).
    Per quanto concerne invece il rapporto tra il narratore e la storia, vi possono essere due tipi di racconto:
    eterodiegetico, quando il narratore è assente dalla storia raccontata (per esempio Omero o Manzoni nei Promessi Sposi; oppure, la voce narrante “asettica” e “assente” di Passage to India di E.M. Forster);
    omodiegetico, quando il narratore è presente come un personaggio nella storia raccontata (per esempio, Ulisse che racconta la sua storia a Nausicaa nell’Odissea raccontata da Omero, oppure Marlow che racconta la storia di Kurz in Cuore di tenebra di J. Conrad e il suo racconto è raccontato da un narratore anonimo in terza persona).
    Quest’ultimo può presentarsi come
    autodiegetico, quando il narratore è anche il protagonista della storia (per esempio, Mattia Pascal e Zeno Cosini),
    come allodiegetico, quando il narratore si limita ad essere un testimone-osservatore (per esempio Ismahel in Moby Dick).
    In ogni racconto, quindi, il narratore viene definito dal suo livello narrativo (extra-diegetico o intra-diegetico) e dal suo rapporto con la storia (etero-diegetico o omo-diegetico), come risulta da questo schema
    riassuntivo:
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    2.2 Narratore nascosto e narratore palese
    S. Chatman introduce la distinzione tra narratore nascosto (covert narrator) e narratore palese (overt narrator).
    Tipica del narratore nascosto è la narrazione mimetica o showing, una tecnica narrativa con la quale egli “mostra” i fatti lasciando parlare i personaggi e descrivendo le loro azioni, quasi che il lettore possa assistervi in presa diretta. «Nella narrazione nascosta si sente una voce che parla di eventi, personaggi e ambienti, ma il narratore rimane nell’ombra. Diversamente dalla storia non narrata, la narrazione nascosta può esprimere i discorsi o i pensieri di un personaggio in forma indiretta […] Deve esserci un interprete che muta i pensieri dei personaggi in espressione indiretta, e non si può dire se dietro le parole non si nasconda a volte il suo punto di vista: “John disse che sarebbe venuto” può comunicare di più che “John disse ‘Verrò’”, dal momento che non si può garantire che John abbia usato queste esatte parole. E per questo se ne trae l’impressione di un narratore nascosto tra le quinte».
    Tipica del narratore palese è invece la tecnica del telling, con la quale il narratore espone i fatti senza lasciar parlare i personaggi e senza descrivere. Come sottolinea A. Marchese, «il narratore scoperto o palese evidenzia la sua onniscienza in diversi modi: 1) spazia liberamente da un ambiente all’altro e da un tempo all’altro; 2) può descrivere extradiegeticamente oggetti, luoghi, personaggi, fornire informazioni al narratario (mentre il narratore nascosto preferisce giocare sulle presupposizioni, dando per scontato che il narratario conosca tutto ciò che è necessario per capire il racconto); 3) è in grado di riassumere segmenti più o meno lunghi della storia, ad esempio gli antefatti, il passato di un personaggio, le transizioni fra una scena e l’altra ecc.; 4) ha la facoltà di riferire il non detto o l’implicito, addirittura quanto non è stato nemmeno pensato da un personaggio […]; 5) fa riferimento alla propria persona, attestando la credibilità di ciò che racconta («L’ho visto con i miei occhi, l’ho sentito direttamente, l’ho letto...»); 6) interviene commentando esplicitamente la diegesi, interpretando e giudicando fatti e personaggi; si può dare anche un commento implicito, di tipo ironico, che mette in risalto la distanza fra il narratore e il personaggio […]; 7)
    può infine commentare non solo la diegesi che sta narrando ma il discorso stesso, intervenendo metanarrativamente sulla struttura del racconto e invitando il lettore a osservare le peculiarità del racconto in quanto discorso narrativo».
    2.3 Il “sapere” del narratore
    In base alle conoscenze che ha della vicenda, il narratore può essere onnisciente, quando conosce ogni fatto, ogni parola detta dai personaggi e ogni loro pensiero, anche quelli inespressi. Solo il narratore extradiegetico può essere realmente onnisciente, poiché un personaggio non potrebbe conoscere i pensieri degli altri. Oppure può essere non onnisciente, quando conosce solo le cose che, nel mondo possibile del racconto, gli è dato di conoscere.
     
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    3. Il narratore biblico
    Se è possibile scrivere una biografia di Alessandro Manzoni o di Italo Svevo (autori reali), altrettanto non si può fare per gli autori dei testi biblici (anche di quelli il cui nome compare all’inizio del testo). Se nel primo caso l’autore reale (la personalità storica) può essere confrontato con l’autore implicito (la personalità letteraria), nel secondo caso l’operazione non è possibile, dal momento che la personalità letteraria ha inglobato in sé la personalità storica.
    Si potrebbe obiettare che una situazione analoga caratterizza i poemi omerici: ad Omero sono stati attribuiti l’Iliade e l’Odissea, ma della sua figura storica non sappiamo praticamente nulla. E tuttavia, ancora oggi si parla di poemi “omerici”, mentre nessuno parla, a proposito, per esempio, della Torah (Pentateuco) di racconti mosaici. La maggior parte dei narratori biblici sono anonimi. Bisognerà attendere scritti più tardi per vedere un narratore non anonimo (cfr. in particolare Esdra e Neemia).

    3.1 Un’identità anonima e collettiva
    Già dal 1750, con Jean Astruc, si fa strada la convinzione che i primi
    due capitoli del libro della Genesi provengano da due fonti (Urkunde):
    elohista e jawista. Da questo momento la critica del Pentateuco è
    diventata una bandiera dell’esegesi e la cosiddetta ipotesi documentaria,
    da allora fino agli anni Settanta del XX sec., è stata una sorta di
    dogma esegetico : il Pentateuco è il frutto di un lavoro redazionale derivante
    dall’assemblaggio di diverse tradizioni o fonti o documenti, con
    evidente svalutazione dell’autore finale. Merito del metodo storicocritico
    è stato di aver chiarito che la Bibbia è il risultato di un lavoro
    compositivo durato diverse generazioni che raccoglie materiale tradizionale
    molto antico. Al di là della distinzione tra «autore», «redattore
    », «editore», «compilatore», qui interessa sottolineare come la lunga
    sezione della Bibbia che va dal Pentateuco (Torah) ai libri storici (Profeti
    anteriori) sia il risultato di una pluralità di voci narrative, indipendentemente
    dalla presenza di un compilatore finale. Come dice J.-L.
    Ska, «i testi del Pentateuco e dei libri storici sono dei plurali irriducibili
    »
    Sempre Ska fa notare come l’anonimato dei narratori biblici avvicini
    quest’ultimi ai narratori dei racconti popolari, ma anche ai narratori
    dell’epopee dell’antica Grecia: «come i narratori dell’antica Grecia, i
    narratori biblici sono per la maggior parte dei portavoce della tradizione
    del loro popolo. Non sono gli autori di queste tradizioni e fanno di
    tutto per nascondersi dietro ad esse. Non cercano neppure di informarci
    su ciò che si è svolto come fanno gli storici, non cercano di essere originali
    e creativi come gli scrittori di ogni tempo, ma vogliono fornire
    le versioni migliori e più essenziali della tradizione viva di Israele,
    quelle che consentiranno al popolo di sopravvivere a tutti i rovesci della sua storia».
    Il narratore biblico è quindi anonimo, plurale e voce collettiva. Tale autorialità non intacca affatto l’autorevolezza della narrazione. Si potrebbe dire che la Bibbia, anche solo da un punto di vista narrativo, è testo autorevole perché narrata da una voce narrativamente autorevole;
    infatti
    in religione e in teologia gli esseri mortali, compresi gli scrittori, sono soggetti a Dio, poiché l’uomo è stato creato da Dio. Ma (…) quando si tratta di raccontare una storia, la situazione è radicalmente diversa. Nei testi narrativi Dio è un personaggio, cioè una creazione di colui che scrive e racconta. Dio è una costruzione linguistica, Abramo è uno strumento linguistico, Davide è un ritratto che consiste esclusivamente in segni linguistici. Dio può agire soltanto se l’autore è disposto a parlarci di lui. È l’autore a decidere se Dio ha il permesso di dire qualcosa nel racconto e, in tal caso, con quale frequenza e quantità di parole. Considerato in questo modo, Dio non è diverso da un asino. In un racconto anche un asino può parlare, addirittura in modo tale da far arrossire di vergogna una persona importante – si legga il racconto di Balaam e la sua asina in Numeri 2223.
    Il narratore biblico è quindi, nella maggior parte dei casi, inafferrabile perché, in certo senso, si dissolve nella narrazione. Ci sono però alcune eccezioni. Nell’introdurre il suo racconto, Luca scrive una sorta di dedica introduttoria in cui emerge l’io del narratore, anche se il seguito della narrazione prosegue in terza persona:


    Poiche' molti hanno intrapreso a ordinare una "narrazione" (diegesis) dei fatti che hanno avuto compimento in mezzo a noi, come ce li hanno tramandati quelli che da principio ne furono testimoni oculari e che divennero ministri della parola, e parso bene anche a me, dopo essermi accuratamente informato di ogni cosa dall'origene, di scrivertene (grapsai) per ordine, illustre Teofilo, perche tu riconosca la certezza delle cose
    che ti sono state insegnate.
    (LC 1,1-4).

    Nel mio primo libro, o Teofilo, [io] ho parlato di tutto quello che Gesu' comincio' a fare e a insegnare...(At 1,1).

    3.2 I livelli narrativi e il rapporto con la storia
    Riprendendo lo schema di Genette, possiamo notare, anzitutto, come nella maggior parte dei casi, il narratore biblico sia extradiegetico (narratore di I grado) ed eterodiegetico (assente dalla storia). Il caso più evidente è quello degli evangelisti che raccontano la storia di Gesù. Ma si veda anche il narratore del libro di Giona e di Giobbe.
    Un narratore extradiegetico (narratore di I grado) e omodiegetico (presente nella storia) si trova in tutto il libro di Neemia:

    Nel mese di Chisleu del ventesimo anno, mentre mi trovavo nel castello di Susa, Anani, un mio fratello, e alcuni altri uomini arrivarono da Giuda. Io li interrogai riguardo ai Giudei scampati, superstiti della deportazione, e riguardo a Gerusalemme… ( Ne 1,1-2),

    nella sezione 7,27–9,15 del libro di Esdra, nel capitolo 6 di Isaia,
    nel capitolo 1 di Geremia e nella sezione 1–3 di Ezechiele:

    Il trentesimo anno, il quinto giorno del quarto mese, mentre mi trovavo presso il fiume Chebar, fra i deportati, i cieli si aprirono, e io ebbi delle visioni divine […] Io guardai, ed ecco venire dal settentrione un vento tempestoso… (Ez 1,1-4).

    Il caso più frequente e più tipico di narratore intradiegetico (di II grado interno alla storia) e eterodiegetico (assente dalla storia) è rappresentato dalle parabole. Ne cito tre, evidenziando la parte in cui il narratore extradiegetico lascia il posto al narratore intradiegetico, cosa che determina un racconto nel racconto (o metadiegesi, secondo la terminologia di Genette).


    Gdc 9,7-16:
    Iotam, essendo stato informato della cosa [cioè dell’elezione regale di Abimelec], salì sulla vetta del monte Garizim e, alzando la voce, gridò: «Ascoltatemi, Sichemiti, e vi ascolti Dio!
    Un giorno, gli alberi si misero in cammino per ungere un re che regnasse su di loro; e dissero all’ulivo: “Regna tu su di noi”. 9 Ma l’ulivo rispose loro: “E io dovrei rinunziare al mio olio che Dio e gli uomini onorano in me, per andare ad agitarmi al di sopra degli alberi?” 10 Allora gli alberi dissero al fico: “Vieni tu a regnare su di noi”. 11 Ma il fico rispose loro: “E io dovrei rinunziare alla mia dolcezza e al mio frutto squisito, per andare ad agitarmi al di sopra degli alberi?” 12 Poi gli alberi dissero alla vite: “Vieni tu a regnare su di noi”. 13 Ma la vite rispose loro: “E io dovrei rinunziare al mio vino che rallegra Dio e gli uomini, per andare ad agitarmi al di sopra degli alberi?” 14 Allora tutti gli alberi dissero al pruno: “Vieni tu a regnare su di noi”. 15 Il pruno rispose agli alberi: “Se è proprio in buona fede che volete ungermi re per regnare su di voi, venite a rifugiarvi sotto la mia ombra; se no, esca un fuoco dal pruno, e divori i cedri del Libano!”
    16 Ora, avete agito con fedeltà e con integrità proclamando re Abimelec? Avete agito bene verso Ierubbaal e la sua casa? Avete ricompensato mio padre di quello che ha fatto per voi?».


    2Sam 12,1-7:
    Il Signore mandò Natan da Davide e Natan andò da lui e gli disse:
    «C’erano due uomini nella stessa città; uno ricco e l’altro povero. 2 Il ricco aveva pecore e buoi in grandissimo numero; 3 ma il povero non aveva nulla, se non una piccola agnellina che egli aveva comprata e allevata; gli era cresciuta in casa insieme ai figli, mangiando il pane di lui, bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo seno. Essa era per lui come una figlia. 4 Un giorno arrivò un viaggiatore a casa dell’uomo ricco. Questi, risparmiando le sue pecore e i suoi buoi, non ne prese per preparare un pasto al viaggiatore che era capitato da lui; prese invece l’agnellina dell’uomo povero e la cucinò per colui che gli era venuto in casa».
    5 Davide si adirò moltissimo contro quell’uomo e disse a Natan: «Com’è vero che il Signore vive, colui che ha fatto questo merita la morte; 6 e pagherà quattro volte il valore dell’agnellina, per aver fatto una cosa simile e non aver avuto pietà». 7 Allora Natan disse a Davide: «Tu sei quell’uomo!...


    Lc 10,25-38:
    25 Ed ecco, un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova, e gli disse: «Maestro, che devo fare per ereditar la vita eterna?» 26 Gesù gli disse: «Nella legge che cosa sta scritto? Come leggi?» 27 Egli rispose: «Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutta la forza tua, con tutta la mente tua, e il tuo prossimo come te stesso». 28 Gesù gli disse: «Hai risposto esattamente; fa’ questo, e vivrai». 29 Ma egli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?» 30 Gesù rispose:
    «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico, e s’imbatté nei briganti che lo spogliarono, lo ferirono e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31 Per caso un sacerdote scendeva per quella stessa strada; e lo vide, ma passò oltre dal lato opposto. 32 Così pure un Levita, giunto in quel luogo, lo vide, ma passò oltre dal lato opposto. 33 Ma un samaritano che era in viaggio, passandogli accanto, lo vide e ne ebbe pietà; 34 avvicinatosi, fasciò le sue piaghe, versandovi sopra olio e vino; poi lo mise sulla propria cavalcatura, lo condusse a una locanda e si prese cura di lui. 35 Il giorno dopo, presi due denari, li diede all’oste e gli disse: “Prenditi cura di lui; e tutto ciò che spenderai di più, te lo rimborserò al mio ritorno”.
    36 Quale di questi tre ti pare essere stato il prossimo di colui che s’imbatté nei ladroni?» 37 Quegli rispose: «Colui che gli usò misericordia». Gesù gli disse: «Va’, e fa’ anche tu la stessa cosa».

    Un esempio di narratore intradiegetico (di II grado interno alla storia) e omodiegetico (presente nella storia) è costituito dal discorso di Paolo ai Giudei in At 22,2–22:

    Quand’ebbero udito che egli parlava loro in lingua ebraica, fecero ancor più silenzio. Poi disse:
    «Io sono un giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma allevato in questa città, educato ai piedi di Gamaliele nella rigida osservanza della legge dei padri; sono stato zelante per la causa di Dio, come voi tutti siete oggi; 4 perseguitai a morte questa Via, legando e mettendo in prigione uomini e donne, 5 come me ne sono testimoni il sommo sacerdote e tutto il collegio degli anziani; avute da loro delle lettere per i fratelli, mi recavo a Damasco per condurre legati a Gerusalemme anche quelli che erano là, perché fossero puniti. 6 Mentre ero per strada e mi avvicinavo a Damasco, verso mezzogiorno, improvvisamente dal cielo mi sfolgorò intorno una gran luce. 7 Caddi a terra e udii una voce che mi disse: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?” 8 Io risposi: “Chi sei, Signore?” Ed egli mi disse: “Io sono Gesù il Nazareno, che tu perseguiti”. 9 Coloro che erano con me videro sì la luce, ma non intesero la voce di colui che mi parlava. 10 Allora dissi: “Signore, che devo fare?” E il Signore mi disse: “Alzati, va’ a Damasco, e là ti saranno dette tutte le cose che ti è ordinato di fare”. 11 E siccome non ci vedevo più a causa del fulgore di quella luce, fui condotto per mano da quelli che erano con me; e, così, giunsi a Damasco. 12 Un certo Anania, uomo pio secondo la legge, al quale tutti i Giudei che abitavano là rendevano buona testimonianza, 13 venne da me, e, accostatosi, mi disse: “Fratello Saulo, ricupera la vista”. E in quell’istante riebbi la vista e lo guardai. 14 Egli soggiunse: “Il Dio dei nostri padri ti ha destinato a conoscere la sua volontà, a vedere il Giusto e ad ascoltare una parola dalla sua bocca. 15 Perché tu gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai viste e udite. 16 E ora, perché indugi? Alzati, sii battezzato e lavato dei tuoi peccati, invocando il suo nome”. 17 Dopo il mio ritorno a Gerusalemme, mentre pregavo nel tempio fui rapito in estasi, 18 e vidi Gesù che mi diceva: “Affrettati, esci presto da Gerusalemme, perché essi non riceveranno la tua testimonianza su di me”. 19 E io dissi: “Signore, essi sanno che io incarceravo e flagellavo nelle sinagoghe quelli che credevano in te; 20 quando si versava il sangue di Stefano, tuo testimone, anch’io ero presente e approvavo, e custodivo i vestiti di coloro che lo uccidevano”. 21 Ma egli mi disse: “Va’ perché io ti manderò lontano, tra i popoli”».
    22 Lo ascoltarono fino a questa parola; poi alzarono la voce, dicendo….

    Riassumendo:

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    3.3 Onniscienza e reticenza
    In occasione della spettacolare teofania narrata nel capitolo 38 del libro di Giobbe, Dio esordisce con queste parole: «Cingiti i fianchi come un prode; io ti farò delle domande e tu mi insegnerai! Dov’eri tu quando io fondavo la terra? Dillo, se sei tanto intelligente. Chi ne fissò le dimensioni, se lo sai, o chi tirò sopra di essa la corda da misurare?» (Gb 38,3-5). È chiaro che questa domanda (e la lunga serie che occupa ben due capitoli del testo) è riferibile non al solo Giobbe, ma ad ogni essere umano.
    Stando così le cose, chi comincia a leggere l’inizio del libro della Genesi non può che porsi una domanda: come è possibile che il narratore racconti un fatto (la creazione) cui non può aver assistito? Come è possibile che egli possa addirittura assumere il punto di vista di Dio (il narratore vede che Dio vede che quanto ha creato è buono: Gn 1,3 e passim)? Come può una narrazione così pertinente essere svolta da un narratore tanto impertinente? In termini narratologici, ci si potrebbe rispondere che siamo di fronte ad un «narratore onnisciente». Si tratta di una onniscienza letteraria, non certo “teologica”, perché, come fa notare J.-P. Sonnet, «ciò che caratterizza il modello biblico è il fatto che uno dei personaggi messi in scena – il personaggio divino – è la “fonte” della scienza del narratore […] Il mondo del narratore inizia con il gesto creatore di Dio: le prime parole del narratore (“Nel principio…”) sono in stato costrutto, unite al verbo (“…del creare…”) di cui Dio è il soggetto (“…di Elohim”)». C’è come un gioco di specchi e di punti di vista incrociati tra il narratore e Dio: chi narra l’inizio della creazione crea anche l’inizio della narrazione. Dio crea il mondo e crea anche il narratore che narra la creazione; la narrazione della creazione è la creazione della narrazione. E allora la narrazione biblica inizia con un racconto di creazione che a sua volta crea la narrazione stessa. La narrazione comincia con la creazione e la creazione dà vita alla narrazione. Insomma, il narratore di Gen 1 ci racconta avvenimenti ai quali nessuno ha assistito, e tuttavia li racconta con autorità. L’autorità deriva dalla sua posizione di narratore. In altri passi il narratore può, se lo desidera, guardare cosa accade nel consiglio celeste, o nella mente dei personaggi e dello stesso Dio, o nella profondità del loro cuore: poco tempo dopo l’inizio del più grande progetto della storia, “il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo”, come è scritto in Gen 6,6. Il narratore lo sa perché lo sa, e lo sa perché lo dice, e forse lo sa soltanto nel momento in cui lo dice; non occorre considerare tale affermazione “storicamente affidabile” e supporre che, in precedenza, lo Spirito Santo abbia fatto una telefonata allo scrittore.
    L’onniscienza porta il narratore a conoscere i segreti delle alcove regali:
    cercarono per tutto il paese d’Israele una bella ragazza; trovarono Abisag, la Sunamita, e la condussero dal re. La ragazza era bellissima, si prendeva cura del re, e lo serviva; ma il re non ebbe rapporti con lei (1Re 1,1-4),

    a rimanere nella stanza dove si consuma la violenza su Tamar da
    parte di Ammon (2Sam 13), a conoscere il contenuto della lettera segreta con cui Davide vuole eliminare Uria:

    La mattina seguente, Davide scrisse una lettera a Ioab e gliela mandò per mezzo d’Uria. Nella lettera aveva scritto così: «Mandate Uria al fronte, dove più infuria la battaglia; poi ritiratevi da lui, perché egli resti colpito e muoia» (2Sam 11,14-15).

    Ma soprattutto è un narratore che ha accesso ai “sentimenti” di Dio

    Il Signore si pentì d’aver fatto l’uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo (Gn 6,6).
    Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore (Gn 6,8).
    Dio vide i figli d’Israele e ne ebbe compassione (Es 2,25).
    Il Signore si era pentito di aver fatto Saul re d’Israele (1Sam 15,35).
    Ma quello che Davide aveva fatto dispiacque al Signore (2Sam 11,27).
    Il Signore aveva stabilito di rendere vano il buon consiglio di Aitofel, per far cadere la sciagura sopra Absalom
    (2Sam 17,14).

    il narratore onnisciente caratterizza buona parte della Bibbia ebraica: lo si ritrova nell’ampia sezione che va dal libro della Genesi al libro dei Re e in testo Giobbe, Giona e Ester. Ma è presente anche nei racconti evangelici: per esempio, quando riferisce di un fatto del tutto privato e intimo come il sogno di Giuseppe (Mt 2,19-20) oppure quando narra un fatto senza testimoni come la preghiera di Gesù nel Getsemani (Mc 14,32-42 = Mt 26,36-46 e Lc 22,40-46).
    L’onniscienza del narratore biblico si sposa con l’onniscienza e l’onnipotenza di Dio. Ma nella visione antropologica della Bibbia, l’essere umano è creato libero, e la libertà di cui gode lo porta spesso a scelte contraddittorie. Tutto ciò trova un evidente riflesso nelle tecniche narrative, come mostra da par suo R. Alter:
    Poiché l’arte non si sviluppa nel vuoto, queste tecniche letterarie vanno rapportate alla concezione della natura umana che è implicita nel monoteismo biblico: ogni persona è creata da un Dio onniveggente, ma è abbandonata alla propria ineffabile libertà, fatta ad immagine di Dio nel senso di un principio cosmogonico, mai però nel senso di un fatto etico compiuto; ogni caso singolo di questo intreccio di paradossi, che abbbraccia i due poli estremi del mondo creato, richiede un’attenzione particolarmente viva alla rappresentazione letteraria. L’intenzionale selettività dei mezzi, le strategie tecniche di contrasto o di confronto usate nel rendere i personaggi biblici sono dettate in un certo senso dalla visione biblica dell’uomo.

    A differenza di quello omerico, il narratore biblico non abusa della propria onniscienza; infatti,
    Ogni narratore biblico rientra ovviamente nella categoria del narratore onnisciente, ma a differenza – ad esempio – del narratore dei poemi omerici, che rende i propri caratteri mirabilmente trasparenti persino (come nell’Iliade) quando sta trattando gli impulsi più oscuri e irrazionali del cuore umano, l’antico narratore ebreo mostra la propria onniscienza con drastica selettività. Talvolta può decidere di comunicare anche a noi la conoscenza di ciò che Dio pensa di un personaggio particolare o di un’azione particolare – e la narrazione onnisciente non potrebbe andare oltre –, ma, di norma, data la comprensione che egli ha della natura dei suoi soggetti umani, ci giuda attraverso diverse forme di oscurità illuminate da fasci di luce intensi ma ridotti, da barlumi spettrali, da improvvisi bagliori intermittenti. Siamo costretti ad arrivare al personaggio e al motivo […] tramite un processo di inferenza, a partire da dati frammentari, spesso con momenti cruciali dell’esposizione narrativa strategicamente sottaciuti per essere proposti più avanti nella trama, e ciò conduce a prospettive molteplici e talvolta persino oscillanti sui personaggi. C’è in altre parole un mistero presente nel personaggio così come lo concepiscono gli scrittori biblici, un mistero che essi esprimono attraverso i loro tipici metodi di presentazione.
    Da parte sua, Sonnet nota come
    conducendo la sua narrazione in maniera minimalista e puntinista, il narratore si mostra in genere estremamente discreto rispetto alla vita interiore (stati d’animo, motivazioni) dei suoi personaggi, sia umani che divino, e questo allo scopo di impegnare il suo lettore in un gioco continuo di ipotesi. Lo stesso narratore interviene tuttavia con l’autorità e la «scienza » che gli sono proprie, quando occorre e quanto conviene, in modo da rilanciare la narrazione verso l’effetto ricercato.
     
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    4. Il lettore

    Si è già messo in risalto come l’analisi narrativa metta al centro il ruolo del lettore (cfr. 1.3.3). Ciò dipende dal fatto che, più che in altri testi narrativi, il narratore biblico intende suscitare la “risposta” del lettore; per questo, egli tende, come si appena detto, a non abusare della sua onniscienza, ma a fornire al lettore «ciò che è necessario al suo atto di lettura, né più né meno, quando serve e per quel tanto che serve». Ovviamente, stiamo parlando del lettore implicito, secondo la definizione di W. Iser, per il quale
    il lettore implicito […] include tutte quelle predisposizioni necessarie all’opera letteraria per esercitare i suoi effetti – predisposizioni progettate non mediante una realtà empirica esterna, ma mediante il testo. Conseguentemente, il concetto del lettore implicito ha le sue radici saldamente piantante nella struttura del testo; esso è una costruzione e in nessun modo può essere identificato con il lettore reale
    Dal momento che ogni narrazione ha il lettori che si merita, ma al tempo stesso costruisce i suoi lettori, ci soffermeremo su due aspetti: come il narratore biblico tiene vivo l’interesse del lettore e il rapporto che sussiste tra il grado di conoscenza del lettore e quello dei personaggi.


    4.1 Il coinvolgimento del lettore

    Un buon racconto è tale nella misura in cui sollecita l’interesse del lettore in tre direzioni: sul piano intellettuale (i fatti e la loro interpretazione), sul piano estetico (le caratteristiche narrative del racconto) e sul piano umano (successo o insuccesso dei personaggi); si parlerà allora di un interesse cognitivo, un interesse qualitativo e un interesse pratico.
    Riassumiamo in uno schema alcuni esempi:
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    Altri esempi si possono trovare in Gs 9 (il trattato di Giosuè con i Ga- baoniti); in Gdc 11 (il voto di Iefte) e in Gdc 20–21(il destino della tri- bù di Beniamino).

    4.2 Conoscenza del lettore e dei personaggi

    S’è detto sopra come l’onniscienza divina si sposi nel racconto con l’onniscienza del narratore. Non è così invece per i personaggi (e quindi per il lettore) del racconto, i quali sono alle prese con l’ambiguità della storia e l’oscurità del piano divino. Infatti, «Dio conosce e controlla tutto, mentre gli umani devono apprendere quali sono i loro limiti, ivi compresa l’impossibilità di comprendere il modo con cui Dio agisce nel mondo». Risulta quindi fondamentale mettere in risalto i gradi di conoscenza attribuiti ai personaggi e al lettore.
    Si possono individuare tre tipologie narrative: il lettore ne sa più dei personaggi, il lettore ne sa meno dei personaggi, il lettore ne sa tanto quanto i personaggi.

    4.2.1 Il lettore ne sa più dei personaggi

    I testi più evidenti da cui emerge un maggior grado di conoscenza del lettore rispetto ai personaggi in scena sono i racconti di apparizione (e teofania).
    Il Signore apparve ad Abramo alle querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della sua tenda nell’ora più calda del giorno. Abramo alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano davanti a lui. Come li ebbe visti, corse loro incontro dall’ingresso della tenda, si prostrò fino a terra e disse: «Ti prego, mio Signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo! (…) (Gn 18,1-15).

    L’informazione del peritesto («Il Signore apparve ad Abramo alle querce di Mamre») assicura al lettore un surplus di conoscenza (egli sa chi sono i tre uomini) rispetto al personaggio di Abramo.
    Mosè pascolava il gregge di Ietro suo suocero, sacerdote di Madian, e, guidando il gregge oltre il deserto, giunse alla montagna di Dio, a Oreb. 2 L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco, in mezzo a un pruno. Mosè guardò, ed ecco il pruno era tutto in fiamme, ma non si con- sumava. 3 Mosè disse: «Ora voglio andare da quella parte a vedere questa grande visione e come mai il pruno non si consuma!» 4 Il Signore vide che egli si era mosso per andare a vedere. Allora Dio lo chiamò di mezzo al pruno e disse: «Mosè! Mosè!» Ed egli rispose: «Eccomi». 5 Dio disse:
    «Non ti avvicinare qua; togliti i calzari dai piedi, perché il luogo sul quale stai è suolo sacro». 6 Poi aggiunse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe». Mosè allora si nascose la faccia, perché aveva paura di guardare Dio (Es 3,1-6).

    Anche in questo caso, informato dal narratore, il lettore sa benissimo che è l’angelo del Signore ad apparire a Mosè, il quale invece lo viene a sapere solo in seguito, dalla bocca stessa di Dio («Io sono il Dio di tuo padre…»). Esempi analoghi si possono trovare in Gdc 6,11-24 e 13,2-25.

    Uno degli effetti più raffinati della discrepanza tra il sapere del lettore e quello dei personaggi è l’ironia drammatica. Se ne può vedere un esempio assai suggestivo in Gn 38 che narra la vicenda di Giuda e Tamar.
    15 Come Giuda la vide, la prese per una prostituta, perché ella aveva il viso coperto. 16 Avvicinatosi a lei sulla via, le disse: «Lasciami venire da te!» Infatti non sapeva che quella fosse sua nuora. Lei rispose: «Che mi darai per venire da me?» 17 Egli le disse: «Ti manderò un capretto del mio gregge». E lei: «Mi darai un pegno finché tu me lo abbia mandato?» 18 Ed egli: «Che pegno ti darò?». L’altra rispose: «Il tuo sigillo, il tuo cordone e il bastone che hai in mano». Egli glieli diede, andò da lei ed ella rimase incinta di lui. 19 Allora Tamar si alzò e se ne andò; si tolse il velo e si rimise le vesti da vedova (Gn 38,15-19).
    A differenza di Giuda, il lettore sa benissimo chi è Tamar. La storia di Tamar, apparentemente incongrua, visto che spezza il ritmo narrativo di Gn 37-50, serve in realtà a fornire al lettore una corretta chiave di lettura della storia di Giuseppe, il quale, alla fine della vicenda, si com- porta, nei confronti dei fratelli, come ha fatto Tamar nei confronti di Giuda, la quale non lo condanna, ma fa in modo che sia lui stesso a ri- conoscere l’ingiustizia commessa. Altri esempi di ironia drammatica, in Gn 27,18-33 e 31,32-35.

    4.2.2 Il lettore ne sa meno dei personaggi

    In quanto onnisciente, il narratore biblico non ha alcuna difficoltà a rendere edotto il lettore; quando non lo fa, significa che intende «ingaggiare il lettore in una dinamica di curiosità e di suspense; in molti casi, il lettore si ritrova allora analogicamente associato alla traiettoria di un personaggio (eventualmente collettivo) privato dello stesso sapere, anche lui in posizione inferiore rispetto a “colui che sa”»38. Ecco alcuni esempi.
    Come aveva già fatto con Faraone (Gn 12,10-20), Abramo presenta Sara ad Abimelec come sua sorella e non sua moglie; avvertito da Dio, il re di Gherar restituisce Sara, insieme a pecore, buoi, servi e serve, dicendo ad Abramo:
    «Ecco, il mio paese ti sta davanti; va’ a stabilirti dove ti piacerà». 16 E a Sara disse: «Ecco, io ho dato a tuo fratello mille pezzi d’argento; questo sarà per te come un velo agli occhi davanti a tutti quelli che sono con te, e sarai riabilitata di fronte a tutti». 17 Abramo pregò Dio e Dio guarì Abimelec, la moglie e le serve di lui, ed esse poterono partorire. 18 Infatti, il Signore aveva reso sterile l’intera casa di Abimelec, a causa di Sara, moglie di Abramo (Gn 20,15-18).
    È solo a questo punto che il lettore viene informato della sterilità che ha colpito le donne della casa di Abimelec.

    Gedeone infuria contro i Madianiti (Gdc 8,4-21) e ci tiene in particolare a catturare Zeba e Salmunna; il motivo diventa palese solo ai vv. 18-19:
    Poi disse a Zeba e a Salmunna: «Com’erano gli uomini che avete ucciso sul Tabor?» Quelli risposero: «Erano come te; ognuno di essi aveva l’aspetto di un figlio di re». Ed egli riprese: «Erano miei fratelli, figli di mia madre; com’è vero che il Signore vive, se aveste risparmiato la loro vita, io non vi ucciderei!».

    Quando Ioab convoca la donna di Tecoa, il lettore non viene informato sul contenuto del suo piano, visto che il narratore si limita a dire:
    Fingi di essere in lutto: mettiti una veste da lutto, non ti ungere con olio e sii come una donna che pianga da molto tempo un morto; poi entra dove sta il re e parlagli così e così (2Sam 14,2-3).

    All’inizio del racconto Giona fugge a Tarsis (1,3), ma il lettore deve aspettare il cap. 4 per conoscerne il motivo:
    Perciò mi affrettai a fuggire a Tarsis. Sapevo infatti che tu sei un Dio mi- sericordioso, pietoso, lento all'ira e di gran bontà e che ti penti del male minacciato (4,2).

    4.2.3 Il lettore ne sa tanto quanto i personaggi

    L’esempio più pertinente di una narrazione in cui lettore e personaggi condividono il medesimo grado di conoscenza è costituito dal racconto di Rut e dal famoso episodio del giudizio di Salomone (1Re 3,16-28).
    Allora due prostitute vennero a presentarsi davanti al re. 17 Una delle due disse: «Permetti, mio signore! Io e questa donna abitavamo nella medesi- ma casa, e io partorii mentre lei stava in casa. 18 Il terzo giorno dopo il mio parto, partorì anche questa donna. Noi stavamo insieme, e non c’erano estranei; non c’eravamo che noi due in casa. 19 Poi, durante la notte, il figlio di questa donna morì, perché lei gli si era coricata sopra. 20 Lei, alzatasi nel cuore della notte, prese mio figlio dal mio fianco, mentre la tua serva dormiva, e lo adagiò sul suo seno, e sul mio seno mise il figlio suo morto. 21 Quando mi sono alzata al mattino per allattare mio figlio, egli era morto; ma, guardandolo meglio a giorno chiaro, mi accorsi che non era il figlio che io avevo partorito». 22 L’altra donna disse: «No, il figlio vivo è il mio, e il morto è il tuo». Ma la prima replicò: «No, invece, il morto è il figlio tuo, e il vivo è il mio». Così litigavano in presenza del re.
    23 Allora il re disse: «Una dice: Questo che è vivo è mio figlio, e quello che è morto è il tuo; e l’altra dice: No, invece, il morto è il figlio tuo, e il vivo è il mio». 24 Il re ordinò: «Portatemi una spada!» E portarono una spada davanti al re. 25 Il re disse: «Dividete il bambino vivo in due parti, e datene la metà all’una, e la metà all’altra». 26 Allora la donna, a cui apparteneva il bambino vivo, sentendosi commuovere le viscere per suo figlio, disse al re: «Mio signore, date a lei il bambino vivo, e non uccidetelo, no!» Ma l’altra diceva: «Non sia mio né tuo; si divida!» 27 Allora il re rispose: «Date a quella il bambino vivo, e non uccidetelo; lei è sua madre!» 28 Tutto Israele udì parlare del giudizio che il re aveva pronunziato, ed ebbero rispetto per il re perché vedevano che la sapienza di Dio era in lui per amministrare la giustizia.

    In questo brano il personaggio e il lettore partono alla pari: nessuno dei due sa (perché il narratore non lo dice) quale donna dica il vero. La scelta del narratore è evidente: in una sorta di climax drammatico, il lettore e il Salomone giungono insieme alla verità («lei è sua madre»).

    Edited by Maurizio 1 - 3/9/2018, 21:23
     
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